Ne sono state proiettate solo due puntate su otto, ma M. Il figlio del secolo, la serie Tv trasmessa da Sky Italia e NOW tratta dal primo volume della quadrilogia di Antonio Scurati sul ventennio mussoliniano, sta già facendo discutere tutta Italia. Perché mette in scena un fascismo che non avevamo mai visto rappresentato così: un fascismo scenico, un fascismo artistico, fatto di colori e suoni, di teatro, di scenografie. Un fascismo di cui riusciamo a percepire i sensi, gli umori, in primo luogo grazie all’interpretazione di Luca Marinelli nei panni di Benito Mussolini.
Poteva essere solo un regista non italiano – l’inglese Joe Wright, 52 anni, all’attivo adattamenti importanti di grandi classici della letteratura come Espiazione, Orgoglio e pregiudizio, Anna Karenina –, forse, a prendersi una simile libertà di rappresentazione nei confronti di una figura che, per quanto dispiaccia ammetterlo, in questo Paese è circondata da un’aura leggendaria: tanto che lo si odi, quanto che lo si ami. L’aura dei busti, delle effigi, dei profili, l’aura di un nome quasi impronunciabile, tanto che lo stesso Scurati si ferma all’iniziale, nel suo titolo. L’aura di un tabù, da maneggiare con molta cura per non svegliare il can che dorme. “Siamo ancora fra voi”, si dice nel prologo, ed è stato sempre così. Il fascismo è sempre rimasto fra noi, anche dopo Piazzale Loreto, dopo la Liberazione, dopo la Costituzione. Il fascismo è sempre rimasto fra noi ma stava ben attento a non abbaiare, se non quando ben calcolato; mentre pazientemente si preparava di nuovo a mordere. Il fascismo è diventato un mito in sé stesso, che “ormai si conosce” perché lo studiamo a scuola, perché esiste un’ampia storiografia di vari e diversi orientamenti, perché è diventato senso comune, perché coincide con una sorta di versione nostrana del “male assoluto”, essenzializzato, e quindi sottratto alla Storia e alla vicenda umana, e sottratto anche alla cultura popolare, se non per quello che rimane delle memorie di famiglia, e che via via, passando il tempo, sbiadiscono.
Lo abbiamo studiato il fascismo, ma quanto lo abbiamo sentito? Quanto abbiamo percepito le energie che si agitavano fra i fascisti? Il loro punto di vista ci è sempre mancato, e proprio per questo li abbiamo mitizzati e resi maschere, e via via, macchiette. Per paradossale che possa sembrare, M. Il figlio del secolo riesce, mettendo in scena un Mussolini impersonificato, nell’operazione più necessaria: far cadere la maschera del personaggio, quella del Duce, e darci a conoscere finalmente l’uomo nel suo contesto, innanzitutto il contesto storico e politico-sociale del primo Novecento, non soltanto italiano. Un contesto non fotografico, ma scenico, scenografico, quasi pittorico. Un contesto in cui non veniamo distratti dal riconoscere questo o quel luogo reali, o dal racconto corale che stempera le responsabilità e diventa un consolatorio ritratto di famiglia, bensì finiamo immersi nella disturbante atmosfera delle energie, del clima di violenza, della tensione delle correnti di potere e di ambizione, di tradimento e aspettativa che furono motore delle azioni del primo uomo del fascismo. L’immersione è profonda e a tratti disturbante; l’odore del sangue, il rumore delle ossa spezzate dal manganello, il sudore, la saliva, il fango delle strade, la polvere. Certo, non si avvicina neanche a ciò che fece Pasolini con Salò. Stiamo parlando di tutt’altro genere di opera. Ma anche in questo caso si può essere tentati di sottrarsi, specialmente durante la fruizione televisiva, con le sue costanti distrazioni a portata di mano. Forse il principale difetto di M. sta proprio in questo: che lo si sarebbe dovuto proiettare al cinema, invece che in TV, perché guardarlo sul grande schermo e nel buio della sala – chi scrive ha potuto vedere tutte le otto puntate della prima stagione al Lido, alla Mostra del Cinema di Venezia dove M. è stato presentato in anteprima nel 2024 – permette di sentire il fascismo in modo ancora più potente e spaventoso, e per catarsi, finita la proiezione, più liberatorio.
È questo il primo e principale merito della serie. Mussolini non soltanto non ne esce mitizzato, al contrario, ne esce profondamente smitizzato, quasi mortificato in quanto personaggio storico. Lo scopriamo nella sua meschinità di fondo, attraverso quella quarta parete da cui entra ed esce per confessarsi a noi, proprio a noi, nei suoi intenti, nel disprezzo per le persone, nelle sue frustrazioni. Mente, tradisce, ordisce, patisce sconfitte, arretramenti e compromessi, e arriva a stringere tutti nel suo pugno, infine. Ma noi spettatori no. Noi spettatori diventiamo la sua coscienza storica, e lo accompagniamo nel “tempo che viene” e che lui si vanta di saper fiutare, “come le bestie”.
“È con questo materiale scadente – con questa umanità di risulta – che si fa la storia”. Così ci dice M., nel libro di Scurati e nella serie. Il materiale scadente che nei primissimi anni del Novecento erano state le masse, grandi protagoniste e grandi vittime sacrificali. Dai seicentomila morti per ottenere una vittoria mutilata nella Grande guerra, fino ai milioni e milioni di operai e braccianti insorti in tutta Europa nel nome della dittatura del proletariato. Milano rappresentata da Wright somiglia così a una Londra proletaria, alla Berlino della “canaglia pezzente” spartachista che in quegli stessi mesi terrorizzava la socialdemocrazia al punto di far decapitare la rivoluzione tedesca assassinando Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. L’ambientazione italiana è sprovincializzata, alleluja, esteticamente si fonde con tutti i sobborghi proletari del mondo uniti, e Milano, centrale nelle movenze mussoliniane, è perfetta, fu perfetta, per diventare il luogo di nascita del fascismo. Milano con la sua anima borghese e con la sua anima proletaria, Milano città delle masse solidali e delle ambizioni individuali, Milano della rivoluzione e della controrivoluzione, Milano del socialismo e del suo tradimento, di quell’antisocialismo che Mussolini interpretò meglio di chiunque altro, perché per lui tradire i socialisti era anche un fatto personale. Tradiva i suoi stessi compagni e si vendicava del disprezzo che essi gli riservavano, proprio perché traditore. Un disprezzo che tuttavia, da parte dei vertici socialisti, non fu privo di sussiego, e portò a gravi errori di valutazione riguardo alle sue abilità e alla sua pericolosità.
M. entra di petto in quella storia, mostrandocela con un linguaggio non accademico, non prolisso; ce la fa vivere come una storia di energie – non è questo, in fondo, la vicenda umana tutta? – e suggerisce chiaramente che se non ci fosse stata la rivoluzione bolscevica, se non ci fosse stata l’Internazionale e il contagio delle masse proletarie in tutta Europa con la febbre del socialismo, molto probabilmente non avremmo avuto neanche il fascismo. Mussolini fu scelto dal padronato dell’epoca, così come dai vertici di quello Stato liberale di cui poi farà bocconi, proprio perché aveva già dato dimostrazione di saper voltare le spalle ai suoi compagni e ai destini del proletariato. I fasci di combattimento non sarebbero arrivati da nessuna parte, se non ci fosse stata una classe dominante che aveva bisogno della violenza organizzata per sedare le spinte rivoluzionarie fra le masse. E sedare le spinte rivoluzionarie è molto più semplice se a trascinarti è l’odio; Mussolini odiava quelle masse, perché loro odiavano lui. Il figlio del secolo fu il figlio che si mise al servizio delle esigenze controrivoluzionarie delle classi dominanti, in un’epoca in cui le masse erano in movimento, la borghesia che affollava il Parlamento le temeva, e solo attraverso la violenza si poteva obbligarle a cambiare direzione. Mussolini fu l’organizzatore di violenza più abile della prima metà del secolo in questo Paese, e la violenza fu determinante nei primi anni di ascesa fascista. Il fascismo non ottenne consenso innanzitutto fra le masse, il fascismo ottenne consenso fra le classi dominanti, e alle masse si impose, non certo si propose. Impose l’accettazione e il consenso stesso, facendo fuori ogni possibile oppositore con cui non era possibile trattare, come ben vediamo con l’assassinio di Giacomo Matteotti; e, fra i corrotti, praticò la corruzione. M. fu figlio di quel contesto, ma quel contesto non è così tanto diverso dal nostro di oggi. Anche oggi siamo all’incrocio fra un sistema liberale democratico azzoppato e un nuovo sistema autoritario voluto dalle classi dominanti; anche oggi, l’incrocio fra guerra globale da un lato e guerra contro le nuove classi in lotta dall’altro – non sono più i proletari, ma continuano a essere le canaglie pezzenti: gli immigrati e chi li salva, gli ambientalisti, gli attivisti, i popoli senza Stato – produce nuove forme di violenza e nuovi caudilli e caudille innalzati al potere perché organizzino quella violenza. Se è vero che la Storia umana è una storia di energie, tutte le energie che vediamo scontrarsi in quella storia di inizio Novecento, e che Wright, Marinelli e tutta la troupe della serie rappresentano così potente, sono energie vive ancora oggi. Per questo M. ha disturbato così tanto chi, anche fra molto ceto intellettuale, non ha nessuna voglia di farsi sollecitare dagli scossoni di questa epoca, più che di quella; e ha invece scosso e affascinato tantissimi spettatori e spettatrici offrendo una chiave di lettura, estetica e inseparabilmente politica, per la violenza e per gli umori di questo oggi, di questo tempo che viene.

Giornalista, fondatrice di Kritica.it. Puoi leggere suoi articoli e saggi su MicroMega, Gli Stati Generali, Africa ExPress. Ha vinto diversi premi fra cui il Premio Luchetta – Stampa italiana nel 2022.