Samuele Tofano è una delle pochissime voci ebraiche di lingua italiana che si è stagliata in modo limpido e inequivocabile, dal 7 ottobre a oggi e durante tutti gli anni precedenti, in solidarietà con il popolo palestinese contro il regime di apartheid di Israele. Informatico, vive a Cambridge, in Gran Bretagna, da molti anni, dove si occupa di ricerca e sviluppo per una grande società di software. La politica è una sua passione da sempre, e l’ha portato anche a una laurea in Relazioni Internazionali. Ed è in nome anche della sua visione politica più ampia che il suo schieramento a fianco del popolo palestinese è fra i più radicali che si possano trovare in questo momento storico in Italia. Ci sentiamo al telefono per riflettere insieme sul senso di questa Giornata della Memoria, la seconda da quando Israele ha lanciato la sua nuova Nakba su Gaza e sui territori palestinesi.
La sua è una famiglia di artisti. Suo nonno, Sergio Tofano, fu uomo di teatro e d’arte, conosciuto in Italia con il nome di Sto, autore del famosissimo fumetto del Signor Bonaventura che appassionava i lettori del Corriere dei piccoli nei primi decenni del Novecento; suo padre, Gilberto Tofano, fu un famoso regista, battezzato cattolico e convertitosi da adulto alla religione ebraica. Morto da qualche anno, è ricordato come l’autore di uno dei più famosi film israeliani, Matzor, che fu anche candidato per la Palma d’Oro a Cannes, nel 1969. “La vicinanza fra la mia famiglia paterna e l’ebraismo incrocia la storia della Seconda guerra mondiale. Quando era un ragazzino, mio padre abitava con la sua famiglia a ridosso del ghetto ebraico di Roma, e assistette dalla finestra di casa sua allo sgombero del ghetto da parte dei tedeschi. Un’immagine che si impresse per sempre nella sua memoria”. La famiglia Tofano in quegli anni aiutò alcune famiglie di ebrei a scampare ai rastrellamenti nazisti, fra queste la famiglia della giornalista Simonetta Della Seta, che ha raccontato la vicenda in un articolo, qualche tempo fa. “La storia della mia famiglia è costruita di questi paralleli, vissuti molto ravvicinati di persecuzioni, ma anche di solidarietà”.
L’incontro dei Tofano con l’ebraismo fu infatti l’incontro di una famiglia di “giusti” – come anche formalmente stanno per essere riconosciuti, Giusti fra le Nazioni, dal Memoriale Yad Vashem a Gerusalemme –, che rimase colpita dalla concretezza delle persecuzioni antisemite nazifasciste e fece la sua parte per salvare vite umane; ma la parte materna della famiglia, proveniente dall’Ucraina e dalla cittadina di Łódź, in Polonia, visse in prima persona le violenze del nazismo. Il ghetto di Łódź, una delle cittadine con la più alta presenza ebraica della Polonia – magnificamente raccontata nel romanzo I fratelli Ashkenazi di Israel J. Singer –, fu uno dei più grandi campi di raccolta di ebrei durante il regime; migliaia e migliaia di ebrei morirono per le condizioni disumane in cui si viveva e lavorava all’interno di quello che di fatto era uno dei principali centri di manodopera per l’esercito tedesco.
“I miei nonni materni emigrarono in Palestina durante gli anni ’30 per scappare alle persecuzioni. La sorella di mio nonno e la sua famiglia, invece, rimasero in Europa e furono tutti sterminati dai nazisti. Nel corso degli anni mi è capitato tante volte, in occasione della Giornata della Memoria, di osservare le foto della mia prozia e di quella parte della mia famiglia materna che è stata eliminata dai nazisti, e con estrema naturalezza associare la memoria di loro alle angherie che oggi stanno subendo i palestinesi da parte di Israele. Eppure, in diverse circostanze mi sono trovato fra persone che avevano vissuto in prima persona le persecuzioni degli ebrei, ne serbavano memoria e ne facevano memoria, e che nel giro della stessa conversazione riuscivano prima a parlarti dell’Olocausto, e poi a prodursi in discorsi a loro volta disumanizzanti e mostrificanti a nei confronti degli ‘arabi’. Senza soluzione di continuità”.

Aver vissuto un’esperienza di oppressione estrema, lo diceva già il grande Marek Edelman, leader della rivolta del ghetto di Varsavia contro i nazisti e indefesso antisionista per tutta la sua vita, non comporta in automatico riconoscersi nelle esperienze di oppressione estrema vissute da altri. “Nel mio caso, una certa consapevolezza è stata il frutto di un’educazione ricevuta dai miei genitori, a loro volta profondamente consapevoli di quanto si sia abusato, nel corso del tempo, dell’antisemitismo, e di quanto si sia fatto ricorso all’eccezionalismo ebraico per legittimare l’oppressione e il razzismo nei confronti di un altro popolo”.
Una strumentalizzazione capace di sporcare anche il rapporto con la propria religione. “Il modo degenerato in cui persone come Netanyahu e i suoi compari adoperano l’appartenenza ebraica è il principale insulto per noi ebrei. Produce un senso di distacco anche da una serie di riti o espressioni, culturali o anche religiose, a cui persino una persona come me, da non praticante, è affezionato, e che vorrebbe vivere in modo sereno. Ma non è più possibile, quando rifletti sul modo ipocrita e violento in cui vengono strumentalizzate le nostre commemorazioni, in particolare quella legata alla Giornata della Memoria. L’idea che Netanyahu potesse essere presente ad Auschwitz per l’anniversario della liberazione mi dà la nausea”.
Per Tofano, “eccezionalismo ebraico” è ciò che in qualche misura “fa sì che su noi ebrei continui a pesare ancora una grande quantità di stereotipi, che poi agiscono anche su noi stessi. Quest’idea del popolo che in quanto perseguitato, per sopravvivere si è fatto furbo e intelligente, scaltro, abile nel maneggiare i soldi e nel fare carriera, agisce dall’esterno così come dall’interno; una visione messianica di noi stessi come popolo eletto è anche un’ingiunzione a fare ‘le grandi cose a cui siamo destinati’, che influenza il modo di pensare di tante persone nella comunità ebraica, a cominciare dalle famiglie nei confronti dei figli. E d’altro canto, l’appartenenza ebraica è costruita su una serie di elementi fra loro così sovrapposti che rendono davvero complesso, intricato, non cadere in confusione nel senso di sé. “Siamo una religione, ma in parte anche un gruppo etnico, esiste un concetto di “nazione ebraica” che ci coinvolge, che ha dei tratti culturali, siamo un groviglio di elementi identitari non facile da sciogliere”.
Un groviglio in cui religione e politica sono sovrapposte sempre, finanche nel senso comune. “La parola ‘sionista’ a casa mia è sempre stata usata in chiave abbastanza dispregiativa, da un punto di vista politico. Però “zionì” è un termine di uso comune, in Israele, che indica un po’ il corrispettivo di quello che in italiano sarebbe “un buon cristiano”, un sinonimo di ‘brava persona comune’, talmente tanto sono fusi gli elementi sociali, con quelli politici, con quelli religiosi. E talmente tanto la visione nazionalista sionista è stata normalizzata nel pensiero di tutti”. Essere sionisti è la norma, essere antisionisti è l’eccezione, e in qualche modo questa eccezione si costruisce sempre a partire da un riconoscimento di pari dignità dell’altro: la persona palestinese, il popolo palestinese, come popolo di pari umanità. “In tutte le sue componenti, il sionismo ha sempre negato questo elemento di pari umanità. Anche nella famosa componente socialista, che poi era innanzitutto una componente legata al rapporto molto importante con l’Unione Sovietica. Mia madre si ricorda perfettamente che quando morì Josip Stalin, per Israele fu un giorno di lutto, i bambini nelle scuole lo commemorarono, le persone erano in lacrime. L’Unione Sovietica era il Paese che ci aveva liberati dai nazisti, che aveva salvato i nostri superstiti nei campi di concentramento. Il socialismo era un riferimento per tanti, ma a sua volta era un socialismo che non comprendeva i palestinesi. Un socialismo solo per gli ebrei”. Anche questo, a ben guardare, in perfetta armonia con il pensiero staliniano e con la teorizzazione del “socialismo in un Paese solo” con la quale l’internazionalismo e l’idea della “futura umanità” avevano ricevuto il colpo di grazia dal dittatore sovietico.
“Non tutti gli ebrei che si trasferirono in Palestina lo fecero però con l’intenzione di opprimere le popolazioni autoctone”, ricorda Tofano. “Molti erano realmente profughi, persone senza nulla, che arrivavano in cerca di una salvezza, certamente romanticizzata dall’idea della Terra Promessa, ma in buona fede. Nelle ricerche che avevo fatto per la mia tesi di laurea avevo trovato testimonianze di scioperi congiunti di lavoratori palestinesi ed ebrei per protesta contro lo sfruttamento nei campi. Entrambi uniti contro gli inglesi, ancora ai tempi del mandato britannico. Esempi di una convivenza più che possibile, solidale, e anche del fatto che non tutti gli ebrei di Palestina incarnavano l’idea messianica che tutto gli appartenesse per diritto divino. Arrivavano anche lavoratori, non necessariamente con la forma mentis del colono”.
Convivenza fra pari. È questa l’idea-forza che il sionismo e l’apartheid hanno reso impossibile praticare in terra di Palestina. Ma alcuni continuano, testardamente, a provarci, con esperienze di co-resistenza fra israeliani e palestinesi, come quelle di Masafer Yatta, raccontate nel documentario No Other Land, o come quelle di realtà più storiche come “Peace now”, o di attivisti che si oppongono alla distruzione degli ulivi e alla costruzione del muro in Cisgiordania, o all’esproprio delle terre, lottando insieme, israeliani e palestinesi.

Ma le esperienze più radicali che vedono impegnati in prima fila cittadini israeliani o ebrei sono, per quanto significative, di minoranza. Specialmente in Italia, dove anche fra coloro che criticano lo Stato d’Israele sono in pochissimi a riconoscere pienamente, senza porsi sulla difensiva o senza ragionare in chiave ebreocentrica, il diritto dei palestinesi a resistere. Oltre a Tofano, forse c’è un solo altro ebreo a farlo: Moni Ovadia. “Lo hanno subissato di critiche per le sue dichiarazioni sul 7 ottobre, ma non ha detto nulla di così strano. Quando i terroristi si macchiano di crimini vanno consegnati nelle mani del sistema giudiziario, del diritto. Ma pensare di bollare tutto come “terrorismo” attraverso una etichetta moralistica è uno dei tanti modi che si usa per disumanizzare un popolo che subisce ingiustizie atroci e prova a resistere, per la sua stessa vita.”
Perché è così difficile trovare posizioni così radicali nella solidarietà con il popolo palestinese? “Il fatto è che – riflette Tofano – le visioni allineate vanno per la maggiore su tutti i piani dell’esistenza, sta diventando difficile trovare posizioni radicali su ogni tema, da quelli economici a quelli politici, parlare di giustizia è sempre più impopolare, specialmente se ci si può allineare sui cosiddetti “valori occidentali”, ovvero su posizioni più comode ancorché ipocrite. Le realtà più radicali sono messe all’angolo, tuttavia continuano a esistere. In Israele stesso non smettono di esprimersi, sebbene siano sempre più criminalizzate e intimidite. Lo stesso in ogni caso avviene anche altrove; anche in Italia, quando ti esprimi in modo più netto, dall’interno stesso della comunità ebraica ti può capitare di essere zittito o bullizzato, basti pensare a chi addirittura arriva a parlare di “ebreucci”, e a volte appare persino nostalgico dell’antisemitismo fascista, nei riguardi di quelli come me che esprimono posizioni di solidarietà con il popolo palestinese”.
“Esistono iniziative prese anche dall’interno delle comunità ebraiche tendenzialmente più conservatrici, come quella francese oltre a quella italiana, che vanno controcorrente, come l’iniziativa dell’attivista e politica ebrea francese Yael Lerer, de La France Insoumise, che ha animato una petizione di israeliani in favore delle sanzioni contro Israele. O alcune iniziative che abbiamo realizzato in Gran Bretagna con ministri del Labour per portare, come gruppo di cittadini di origine ebraica, le nostre posizioni su Israele”. Pur sapendo che proprio dentro il Labour britannico si è tenuta forse la lotta più sleale fra le posizioni moderate e tendenti a destra, rappresentate da Keir Starmer, che è allineatissimo con Israele, e quelle più radicali, più di sinistra, di Jeremy Corbyn, il quale è stato di fatto disarcionato e neutralizzato dalla testa del partito, utilizzando l’insistita accusa di antisemitismo. “Vivendola dall’interno non ho mai avuto dubbi che si trattasse di una campagna completamente falsificata e mistificatoria nei suoi confronti, che mirava a liberarsi di un politico troppo alternativo, troppo di sinistra. Il pretesto furono alcune uscite antisemite di piccoli politici locali, di quel tipo che abbiamo sentito fare chissà quante volte anche in Italia e un po’ ovunque. A dimostrazione che gli stereotipi nei nostri confronti esistono e resistono. Ma incolpare Corbyn di antisemitismo è stata una campagna di character assassination del tutto orchestrata, per fini più ampi”.

È il liberalismo, in questa fase storica, sostiene Tofano, l’ombrello sotto il quale posizioni sempre più conservatrici cercano di soffocare le spinte più coraggiose e audaci verso la giustizia sociale. “Il liberalismo ha le sue tare originarie, perché si è sempre fondato su una visione parziale dell’umanità, una visione quasi arcaica, come quella americana, tale per cui si proclamava che “tutti gli uomini sono nati uguali” per poi mantenere perfettamente intatto lo schiavismo come elemento strutturale”. La stessa visione che Israele mantiene nei confronti dei palestinesi, e che trova sponda tuttora a causa della mancanza di una visione alternativa, a causa di una sconfitta storica della sinistra. “Anche all’interno della comunità ebraica stessa, così come dappertutto, si fanno spazio approcci e atteggiamenti più conservatori e razzisti laddove manca una visione più radicale, una sinistra più rivoluzionaria. Se prendiamo il caso dell’Italia, non ci possiamo neanche stupire più di tanto che imperversino figure interne alla comunità così vicine all’estrema destra, e che personalità come Moni Ovadia siano sostanzialmente sole, perché la sinistra in Italia è completamente sparita, non ce n’è più traccia. Questo comporta molte conseguenze, fra cui quella, non secondaria, che chi potrebbe farsi portavoce di idee più coraggiose si sente talmente solo che spesso si chiude nella paura”.
Anche in Israele è in atto questo stesso processo? “Posto che come dicevamo all’inizio anche la sinistra in Israele, quella di origine laburista, era influenzata dal sionismo di matrice sovietica per così chiamarlo, credo di sì, è in corso uno spostamento verso destra nella società su tanti temi differenti, e questo ha comportato una criminalizzazione via via maggiore di voci dissidenti, che sono state silenziate. Penso alla solitudine di un deputato come Ofer Cassif e agli attacchi che ha subito, persino fisici, dentro la Knesset”.
Per anni, racconta Tofano, in Israele il “moderatismo” è passato dal tentativo di far dimenticare a tutti l’esistenza stessa del problema dell’apartheid. “Lo stesso ritiro da Gaza del 2005, tatticamente orchestrato da Ariel Sharon, aveva questo obiettivo. Insabbiare quella che dal punto di vista israeliano è la ‘questione palestinese’”. Anche se poco dopo quel ritiro c’era stata l’operazione “Piombo fuso” e ancora tante e tante guerre su Gaza; la sensazione, all’interno della società israeliana, era forse simile a quella che racconta il film The Vanishing Soldier: una normalità allucinata, in cui la guerra contro i palestinesi e la militarizzazione della società rappresentano uno spettro, più che una realtà. Poi è arrivato il 7 ottobre e gli israeliani si sono ritrovati di nuovo catapultati nella realtà. “Ed è una realtà sempre più autoritaria, in cui addirittura l’intento del Governo israeliano è quello di stabilire una verità di Stato sui fatti del 7 ottobre, e chiunque non si attenga a quella rischia la repressione e il carcere”. Una legge non ancora approvata, ma l’imposizione di una verità di Stato, come in ogni transizione ai regimi fascisti, prima che dal Parlamento passa per lo squadrismo. “In Israele lo squadrismo fisico, non solo sui social media, contro chi esprime posizioni dissidenti è un fatto serio e reale che genera tanta paura. I movimenti critici contro le posizioni del Governo vengono intimiditi e minacciati, in modi più o meno eclatanti, e questo scoraggia tante persone dall’esporsi”.
Come immaginarsi un futuro diverso, in un quadro di simile violenza e oppressione? “Per indole e convinzioni, come uomo sono un non-violento. Ma non riesco proprio a immaginarmi la concreta possibilità di una via d’uscita non violenta da una situazione tale. Se si moltiplicassero le occasioni di dialogo, forse, chissà. Parlarsi da esseri umani, può cambiare le cose? Ricordo un aneddoto dell’ultima volta che sono stato a Gerusalemme est con alcuni parenti e mia madre. I nostri parenti israeliani ci dicevano di non parlare ebraico, ‘parlate solo inglese, non fatevi riconoscere’. Siamo entrati in questo piccolo ristorante palestinese, mia madre ha iniziato a parlare in inglese, ma aveva un accento così marcato che i ristoratori subito le hanno risposto… in ebraico. Simpaticamente smascherando la sua sceneggiata. Questo loro gesto ha immediatamente sciolto la tensione, creando una atmosfera di convivenza in cui non c’era ragione per stare sulla difensiva. Questo è ciò che, nella sua semplicità, vorrei accadesse. Che si mettessero le basi per una convivenza”.
La soluzione della convivenza, il grande sogno in questa parte del mondo e non solo. Ma per proiettarlo verso una realtà praticabile, non si possono eludere tutte le linee del potere. Come chiamare un eventuale futuro Stato di convivenza fra ebrei e palestinesi? Non è pensabile che la convivenza possa avvenire nel nome di Israele, uno Stato che ha un segno etno-religioso-nazionale così marcato, fin dal nome. “Un solo Stato per tutti non potrebbe mai nascere all’insegna di una sola appartenenza religiosa. Tuttavia è difficile anche solo provare ad addentrarsi in queste visioni, è come se mancassero tutti i presupposti. Per me è difficile non prevedere che passeremo ancora per altre tragedie, ovviamente non è un auspicio. Il problema è anche umano, in Israele quelli che vorrebbero una società diversa stanno andando via. C’è un esodo dal Paese, dovuto alla paura e anche a una distanza crescente dal senso di appartenenza. Alcuni lo fanno in modo più eclatante, come vero e proprio segno di protesta, altri in modo più silenzioso, ma è un fenomeno significativo”. Anche se l’esodo degli ebrei non è di certo una soluzione. “Alcuni pensano che tutto si aggiusterebbe se i tanti ebrei che hanno popolato Israele tornassero nei loro Paesi, visto che hanno tutti la doppia cittadinanza eccetera. Questo però non è vero, non tutti hanno la doppia cittadinanza, moltissimi non avrebbero alcun Paese dove tornare. Personalmente non credo che questa soluzione sarebbe giusta. Credo che tutti dovrebbero poter rimanere a vivere nel luogo che ormai sentono come casa propria. In una soluzione di reale uguaglianza”. Proprio a mettere i presupposti per questo tipo di soluzione servirebbe, quindi, il coraggio di una visione di futuro. Che consenta di uscire dalla rassegnazione alla violenza. “Non saprei dire se qualcuno, al momento, è portatore di una simile visione, dentro Israele. Ci sono brave persone, realtà di pace, ci sono intellettuali coraggiosi, ci sono esperienze di impegno condiviso fra ebrei e palestinesi. Servirebbe uno sguardo che metta al centro l’altrui umanità e la propria, e provi a immaginare un modo di vivere diverso cominciando da lì”. Tutto ciò che unisce, piuttosto che tutto ciò che divide.
CREDITI FOTO: Samuele Tofano

Giornalista, fondatrice di Kritica.it. Puoi leggere suoi articoli e saggi su MicroMega, Gli Stati Generali, Africa ExPress. Ha vinto diversi premi fra cui il Premio Luchetta – Stampa italiana nel 2022.