Si è inagurata sabato 17 maggio al MAXXI di Roma la mostra “Mediterranea. Visioni di un mare antico e complesso”, uno sguardo sul Mediterraneo come crocevia di rotte e di culture,  un ruolo centrale nell’antichità, un ruolo importante ancora oggi, ponte tra tre continenti ma anche  tragico scenario di conflitti e di cambiamenti, minacciato dalla crisi climatica, dall’innalzamento delle temperature, dall’inquinamento. Le immagini satellitari che accompagnano la mostra sono un interessante ventaglio del ruolo dei satelliti nel monitoraggio come nella Ricerca, ma vivono anche di bellezza propria. Da un punto di vista di comunicazione e divulgazione scientifica, un buon lavoro da parte della curatrice, Viviana Panaccia. Più discutibile il ruolo della presidente della fondazione Maxxi, Maria Emanuela Bruni, che, in perfetta linea con le gestioni precedenti, segue una campagna di accoglienza e ossequio alle istanze pro Israele in Italia, tanto reiterata quanto netta nelle intenzionio. Il MAXXI ha ospitato le celebrazioni per i 75 anni della nascita dello “stato di Israele” (maggio 2023), l’evento “7 ottobre, Israele brucia” (febbraio 2024) ed eventi come “Novantacinque percento paradiso, Cinque per cento inferno” (novembre 2023) e “Tel Aviv, The White City” (maggio 2018), in una evidente operazione di immagine per lo Stato occupante e di normalizzazione per gli insediamenti e le architetture “israeliane” nella Palestina occupata. Il contrasto più stridente, insopportabile, a tratti grottesco resta in ogni caso quello  tra il messaggio della mostra, le parole espresse per lettera dei referenti politici – i ministri Tajani e Giuli – o in persona da Marco Minniti, presidente della fondazione Med-Or, discutibile sponsor della mostra, già contestato dal collettivo di lavoratori della cultura Vogliamo tutt’altro, dalla Rete di Università per la Palestina, e da anni dal movimento BDS – Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni verso Israele.

Se infatti non è mistero che Leonardo spa sia capofila europeo per il riarmo, è meno noto  che, attraverso Leonardo, l’Italia è da anni partner privilegiato di Israele per quanto riguarda armi, componenti, cyber security, una alleanza privilegiata che data ben prima del 7 ottobre, e che non si è interrotta neppure dopo i pronunciamenti della Corte internazionale di Giustizia; che ci rende complici, giuridicamente e umanamente, del genocidio in corso. Attraverso la fondazione Med-Or, Leonardo e Israele entrano a gamba tesa nelle università, indirizzando i progetti di Ricerca, sia quelli a più ovvie implicazioni belliche – sospetto dual use – sia quelli a carattere apparentemente diverso, dal diritto alla archeologia, in maniera acritica e come se le università israeliane non fossero attori di primo piano nel rafforzare il sistema di oppressione e la base ideologica che il sionismo fornisce ad esso, come mette in luce Maya Wind nel suo saggio “Torri d’avorio e di acciaio”.

Paradossale sentir parlare di dialogo dal ministro Tajani, che nega perfino che a Gaza stia succedendo qualcosa oltre la crudezza di un comune scenario di guerra, e che a febbraio dichiarava che Riconoscere la Palestina oggi sarebbe un messaggio negativo per la pace perché sarebbe un chiaro messaggio contro Israele”. Paradossale sentir parlare di ponti Marco Minniti, già autore degli accordi con la Libia sul respingimento e trattenimento dei migranti, condannata dall’Onu e ancora in essere. Paradossale, soprattutto, la chiusa: si indice una conferenza stampa, e la stampa è li solo per elargire applausi.

Perché a monologo finito, accennando Minniti alla importanza, su Gaza, di mandare un segnale, un messaggio, una giornalista ha osato dire che forse l’embargo militare, smettere di fornire armi a Israele attraverso Leonardo, e collaborazioni accademiche attraverso Med-Or potrebbe essere, appunto, un segnale. IL segnale. “Non è un discorso politico”, ha cercato di glissare l’ex ministro con sufficienza.

“Due minuti fa ha parlato lei stesso di risposta politica, di politica “alta”, che guarda al futuro e non al presente, tutto il suo discorso è, nei fatti politico”, mi sento in dovere di dire. Con la arroganza di chi è abituato ai monologhi e non a dovere risposte a giornalisti, Minniti ha trattato con finta condiscendenza la giornalista, promettendole un microfono come si farebbe a un bambino o a qualcuno in cerca di visibilità: il tutto, e questa è la nota in assoluto più triste e miserabile, senza che nessuno dei presenti, una trentina di persone tra giornalisti e fotografi, abbia sentito il dovere di dire “Scusi, anche io sarei interessato a sentire la risposta”. Se l’ex ministro dell’interno si aspettava un monologo senza interruzioni, la stampa ha dato modo di mostrare che era ne giusto: dunque giornalisti e cronisti erano lì per applaudire, scenografia per le foto e mero mezzo per pubblicizzare la mostra, non richiesta e non voluta alcuna interlocuzione critica. Un taglio di nastro alla presenza della stampa, non un incontro con giornalisti. La chiusura è che siamo state immediatamente accompagnate fuori, e identificate. Non per aver creato disordine, gridato, agitato bandiere, insultato: per aver fatto una domanda. Tra forze dell’ordine e giornalisti, quelli fuori dal proprio ruolo erano di certo più i secondi.

Simona Borioni

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