Le carte dell’inchiesta della Procura di Genova parlano chiaro: per i magistrati che hanno chiesto e ottenuto misure cautelari nei confronti di nove persone accusate di finanziamento al terrorismo, a Gaza non esiste un confine netto tra assistenza umanitaria e sostegno ad Hamas. In quelle oltre trecento pagine si snoda una tesi radicale nella sua semplicità: Hamas è un’organizzazione unitaria, un corpo unico, e ogni risorsa che entra nella Striscia attraverso strutture a essa riconducibili è destinata, direttamente o indirettamente, a rafforzarne anche l’ala militare e quindi il terrorismo. I fondi arrivati a Gaza calcolati dalla procura sarebbero 7 milioni di euro in quasi 25 anni e distribuiti a una trentina di associazioni palestinesi con bonifici, la procura stima che il 71% siano stati utilizzati da Hamas. Già dal 2021, ma soprattutto dopo il 2023, con la chiusura dei conti delle associazioni su segnalazione statunitense e israeliana, molti dei fondi sono stati portati in Turchia in contanti, circa un milione di euro, regolarmente denunciati alla dogana. 

È una tesi che ha diverse conseguenze, non solo per gli indagati, ma per l’intero sistema di solidarietà internazionale verso la popolazione palestinese, la stessa che Israele usa per giustificare i blocchi e gli embarghi posti sul territorio della Striscia. E che la procura porta avanti con diversi riferimenti giuridici e documentali, ma che solleva interrogativi profondi sulla tenuta del diritto penale in contesti di conflitto armato e occupazione militare.

Dal punto di vista strettamente giuridico, la Procura, dopo aver fatto una lunga introduzione storica su Hamas, muove dalla necessità di verificare se essa sia inquadrabile nella fattispecie di cui all’articolo 270 bis del codice penale, che punisce l’associazione con finalità di terrorismo anche internazionale. Sul punto, il quadro normativo è chiaro: Hamas è inserita nelle liste delle organizzazioni terroristiche dell’Unione Europea dal 2003, a seguito dell’estensione della qualificazione inizialmente limitata alle Brigate al-Qassam, l’ala militare, all’intera organizzazione. Prima di allora solo l’ala militare era inserita in quella lista, mentre era riconosciuto l’aspetto politico del movimento. 

La giurisprudenza di legittimità, tuttavia, ha più volte chiarito che l’inserimento nelle cosiddette “black list” non è di per sé sufficiente a qualificare un’organizzazione come terroristica in sede penale, ma costituisce un elemento indiziario da valutare unitamente alle risultanze istruttorie concrete. È quanto ribadito anche dalla recente Cassazione (sentenza n. 32712/2024), richiamata negli atti dell’inchiesta. 

La stessa giurisprudenza, peraltro, afferma che anche in un contesto di conflitto armato e di occupazione illegittima – quale quello dei Territori Palestinesi Occupati, come riconosciuto dal diritto internazionale e dalla Corte Internazionale di Giustizia nel parere del luglio 2024 – le condotte violente dirette contro la popolazione civile integrano comunque atti di terrorismo. Hamas, sotto questo profilo, ha rivendicato decine di attentati suicidi che hanno colpito in larghissima parte civili israeliani, rafforzando la qualificazione terroristica dell’organizzazione (nelle carte si parla di 68 attentati, che hanno causato 484 morti e 3305 feriti). 

La natura di Hamas

Il cuore dell’impostazione accusatoria, tuttavia, non risiede tanto nella natura terroristica di Hamas, riconosciuta soltanto dal “blocco occidentale” e non dall’Onu, quanto nell’interpretazione della sua struttura interna. Secondo la Procura, non esisterebbe una separazione netta tra ala militare e settore assistenziale (da‘wa), poiché quest’ultimo svolgerebbe una funzione di proselitismo, controllo sociale e supporto indiretto alle attività armate. 

Si legge infatti nelle carte: “Hamas è un’organizzazione unitaria, senza netta separazione tra ala militare e l’ala politica, li che si riverbera anche nella destinazione dei finanziamenti provenienti dall’estero che non possono essere sicuramente distinti”. Ne conseguirebbe che ogni forma di sostegno economico indirizzata a Gaza, anche se ad associazioni umanitarie, se canalizzata attraverso strutture riconducibili al movimento, finirebbe inevitabilmente per alimentarne anche l’attività terroristica. “Lo stesso settore da’wa, non svolge una funzione di esclusivo sostegno sociale alla popolazione civile (in ipotesi accusatoria solo a quella parte che è collegata direttamente al Movimento), ma alcune delle attività finanziate dalle associazioni che operano nel settore educativo e sociale sono comunque connesse, almeno indirettamente, alle finalità anche militari del movimento”.

Questa connessione la procura genovese la dimostra con la natura islamico-fondamentalista delle attività sociali, ma anche con il fatto che alcune opere di beneficenza riguardano feriti, prigionieri e i cosiddetti martiri, quindi l’ala militare del movimento. Di fatto nelle carte non spuntano connessioni con attentati o attività terroristiche definite e neanche l’acquisto di materiale bellico finalizzato a compiere attentati a Gaza o su territorio italiano (l’accusa rivolta agli indagati è anche quella di essere infatti una cellula italiana terroristica di Hamas). 
Inoltre nelle carte una sorta di attività di da’wa fuori dai confini della Striscia viene identificata nella raccolta di denaro e l’attività di lobbying nei paesi di residenza, quello cioè di cui sono accusati gli indagati.

Le attività educative, sanitarie e caritative – si legge negli atti – non sarebbero neutrali, ma ideologicamente orientate e funzionali alla costruzione di consenso, alla fidelizzazione della popolazione e, in alcuni casi, al sostegno logistico e materiale dei militanti e delle loro famiglie. In questa prospettiva, le associazioni di beneficenza affiliate a Hamas, che la procura calcola siano la metà di quelle presenti nella Striscia, costituirebbero un canale essenziale di finanziamento del movimento nel suo complesso.

Questa ricostruzione si fonda sulla documentazione di provenienza israeliana, che descrive una rete centralizzata di controllo delle charities attraverso il cosiddetto Dipartimento delle Istituzioni, creato dopo la presa del potere di Hamas nel 2007. Secondo tali fonti, donare sistematicamente a determinate associazioni equivarrebbe a sostenere Hamas, poiché esisterebbero alternative “indipendenti” nella galassia umanitaria della Striscia.

È proprio qui che emergono le principali criticità. Hamas che come si ricordava sopra ha commesso diverse azioni terroristiche, ma è al tempo stesso un attore politico e amministrativo che governa Gaza da quasi vent’anni. Gestisce ospedali, scuole, tribunali, servizi essenziali e impiega migliaia di dipendenti pubblici. Com’è stato osservato da diversi studiosi, Hamas è un movimento “ibrido”, complesso e stratificato, che intreccia dimensione militare, politica e sociale, nato ispirandosi al modello dei Fratelli Musulmani egiziano, e che ha una visione di Stato che non si distingue dal Corano e dalla sua manifestazione nella gestione della popolazione. Su questo la procura ricorda i due principali documenti che riguardano gli intenti di Hamas quello della sua fondazione (dove ci si riferisce allo Stato Islamico, alla sharia e alla liberazione della Palestina contro il nemico ebreo, con intenti antisemiti) e quello aggiornato del 2017, e che la procura inserisce, per via dei suoi toni più risoluti, in una manovra del movimento per cercare consensi all’estero. 

Il fatto che entrare in contatto con Hamas sia quindi automaticamente, secondo quanto riconosciuto dall’Ue, entrare in contatto con il terrorismo, è quanto Israele sostiene da decenni, per cui non esisterebbe possibilità di assistenza umanitaria senza complicità con il terrorismo. Una tesi che, applicata rigidamente, conduce alla criminalizzazione generalizzata degli aiuti a Gaza e, di fatto, alla legittimazione di una forma di punizione collettiva della popolazione civile. 

Non a caso, accuse analoghe sono state rivolte negli ultimi anni a decine di ONG internazionali e persino all’UNRWA, l’agenzia ONU per i rifugiati palestinesi, accusata di essere infiltrata da membri di Hamas, e che molti suoi dipendenti avessero partecipato al 7 ottobre, senza che siano mai state rese pubbliche prove giudiziarie solide. Le conseguenze sono state sospensioni di fondi, revoche di permessi e un ulteriore aggravamento della crisi umanitaria. Dall’inizio dell’offensiva che ha dato via al genocidio palestinese il governo israeliano  ha revocato il permesso di operare nella Striscia a 37 organizzazioni umanitarie, tra cui Medici Senza Frontiere, ActionAid e Oxfam, perché non capaci di garantire standard di sicurezza sufficienti. Si intende, ovviamente, la sicurezza di Israele.

I dossier israeliani

Il secondo nodo cruciale dell’inchiesta riguarda l’origine e l’utilizzabilità delle prove. Una parte rilevantissima dell’impianto accusatorio, di fatto i collegamenti tra le associazioni italiane e quelle palestinesi (quindi, secondo l’accusa, indirettamente Hamas) si fonda su documenti forniti da Israele, “informazioni spontanee”, raccolte nel corso di operazioni militari come Defensive Shield, condotta in Cisgiordania circa 20 anni fa, e Swords of Iron, l’offensiva partita dopo il 7 ottobre 2023. Sono circa 120 documenti, distinguibili dalla sigla AVI, forniti da un agente israeliano la cui identità è nascosta anche agli stessi inquirenti italiani per motivi di sicurezza. 

Si tratta di materiale consegnato manualmente alle autorità italiane, prodotto da apparati militari e di intelligence, con parti oscurate per ragioni di sicurezza nazionale israeliana. Documenti che non provengono da indagini giudiziarie o da procedimenti sottoposti al contraddittorio, ma dal “campo di battaglia”.

È da quei materiali, cioè da Israele, che si trae la conclusione che le associazioni umanitarie palestinesi siano tutte riconducibili ad Hamas. La stessa ABSPP (l’Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese) l’associazione di Mohammad Hannoun, il principale indiziato, in carcere dal 27 dicembre, è classificata da Israele legata all’organizzazione islamica.

L’avvocato e docente di diritto penale Alessandro Diddi intervistato dal Messaggero ha rilevato quanto sia anomalo che l’unico elemento a sostegno di eventuali legami tra i beneficiari dei trasferimenti di denaro e Hamas derivi esclusivamente da rapporti dell’esercito israeliano o dei suoi apparati di intelligence. Sullo stesso punto insiste Giandomenico Caiazza su Domani: occorre accertare in che modo le autorità italiane abbiano acquisito e utilizzato quelle informative provenienti da Israele e sarebbe estremamente preoccupante se si fosse trattato di un’accettazione acritica di materiali di intelligence, priva di qualunque attività di controllo e riscontro autonomo.

Anche per gli avvocati di Hannoun Fabio Sommovigo e Emanuele Tambuscio, in vista del Riesame, un nodo da sciogliere è la natura e l’utilizzabilità dei documenti forniti da Israele e utilizzati dai pm genovesi per dire che le associazioni destinatarie dei finanziamenti sono in realtà in mano ad Hamas. Si tratta di materiale sequestrato o formato “sul campo di battaglia – hanno spiegato i legali alle agenzie – e non sappiamo con quali modalità e quali garanzie procedurali o processuali da cui vengono ricavate una serie di informative che per noi sono atti di indagine da parte di una polizia estera e non di un’autorità giudiziaria, la cui natura sarà oggetto di studio nelle prossime settimane”. “C’è un uso copioso di documentazione fornita dal governo israeliano, non possiamo neanche dire dall’autorità giudiziaria israeliana, perché non si tratta di quella, ma di servizi alle dipendenze del ministero della Difesa. Quindi è una collaborazione inedita, con un’entità assolutamente sconosciuta”. Tambuscio aggiunge che, come sostenuto dai familiari di Hannoun, “la beneficenza è rivendicata e dichiarata da molti anni. In merito, c’è stata una precedente indagine con richiesta di archiviazione, e formalmente questa è la riapertura della vecchia indagine”.

L’ABSPP nei primi anni Duemila era stata già coinvolta in altri processi giudiziari, con le stesse accuse, ma la magistratura italiana aveva già espresso forti riserve sull’utilizzabilità di questo materiale. Nel 2010 la Procura di Genova chiese l’archiviazione rilevando la difficoltà, se non l’impossibilità, di utilizzare atti acquisiti nel corso di operazioni militari, in assenza delle garanzie previste dall’ordinamento italiano. La pubblico ministero Francesca Nanni scriveva così: «Tutto ciò a prescindere dalla difficoltà, in alcuni casi, impossibilità di utilizzazione del materiale trasmesso dallo Stato di Israele, spesso raccolto nel corso di vere e proprie operazioni militari, pertanto senza l’osservanza dei principi fondamentali che regolano l’acquisizione delle prove nel nostro ordinamento».

Oggi la Procura sostiene che l’articolo 234 c.p.p. consente l’acquisizione di documenti formati all’estero, purché non ottenuti in violazione di legge, richiamando anche raccomandazioni del Consiglio d’Europa sull’uso di informazioni raccolte in zone di conflitto. Resta però aperta una questione di fondo: se un procedimento penale italiano può reggersi su materiale prodotto da uno Stato direttamente coinvolto nel conflitto, portatore di un interesse politico e militare evidente. È una distinzione decisiva. E il modo in cui la giustizia italiana la affronterà potrebbe costituire un precedente destinato ad andare ben oltre il caso di Genova. 


CREDITI FOTO: ANSA/MATTEO CORNER

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