Quello che è appena successo in Grecia è l’espressione di un sistema all’opera. Il parlamento greco ha adottato una nuova legge sul lavoro che consente ai lavoratori del settore privato in tutti i settori, dai servizi all’agricoltura, fino a 13 ore di lavoro al giorno. Il governo lo definisce un secondo lavoro “volontario”, con un presunto aumento salariale del 40%. Ma questa definizione appartiene al mondo delle finzioni giuridiche, non alla realtà sociale. Quando i salari da fame sono la norma e la disoccupazione rimane una minaccia incombente, che potere ha un lavoratore di dire veramente di no?
La legge istituzionalizza la coercizione, conferisce al capitale il potere legale di estrarre più lavoro senza alterare fondamentalmente il rapporto di sfruttamento. Legalizza l’esaurimento. Sposta la responsabilità della sopravvivenza ancora più sulle spalle di individui già schiacciati dall’inflazione, dal debito e dall’insicurezza. In un paese in cui quasi la metà della popolazione non può permettersi una settimana di vacanza, la legge non promuove le opportunità, ma consolida un ordine sociale in cui la classe lavoratrice è invitata a comprare tempo con la propria salute.
Un ruolo preciso per il Sud d’Europa
Si tratta della direzione materiale dell’Unione Europea, riguardo alle sue periferie, alle sue gerarchie interne e al suo reale contenuto sociale. La Grecia è membro dell’UE, presumibilmente vincolata dai suoi “valori” e dalle sue tutele sul lavoro. Eppure la risposta di Bruxelles è il silenzio. Nessuna reprimenda legale. Nessuna protesta morale. Nessun controllo istituzionale. L’UE agisce come se si trattasse di un problema locale. Ma la Grecia non sta violando le regole dell’Unione. Le sta semplicemente esprimendo nella loro forma più cruda. La stessa logica che ha trasformato l’Europa orientale in una riserva di manodopera a basso costo semi-periferica sta ora funzionando all’interno della frontiera meridionale dell’Eurozona.
Per anni, la crisi greca è stata descritta come una deviazione: un fallimento della governance locale, corruzione o “pigrizia” mediterranea. Ma questa è propaganda per una società benpensante. La vera architettura della crisi greca è stata costruita a Francoforte, Berlino e Bruxelles. I cosiddetti programmi di “salvataggio” erano strumenti per disciplinare la società greca attraverso la ristrutturazione del debito, la privatizzazione dei beni pubblici, la soppressione dei salari e i tagli alle pensioni, il tutto per garantire il rimborso delle banche tedesche e francesi. Il risultato non è stato il salvataggio, ma la rovina sociale. L’austerità non era una necessità economica, ma un progetto di classe per garantire il dominio del capitale oltre i confini.
In questo contesto, la nuova legge sul lavoro è una continuazione che conferma che la Grecia post-crisi non si sta riprendendo, ma si sta adattando al suo nuovo ruolo di zona di manodopera a basso costo all’interno dell’Europa. Questo è l’orizzonte strategico che l’UE offre ai suoi membri più poveri: rimanere competitivi diventando più economici, più flessibili, più sacrificabili. Le élite tecnocratiche dell’UE non si oppongono a questa direzione, ma la amministrano. La facciata democratica delle istituzioni europee nasconde una dura realtà economica: la libertà di movimento e la legalità liberale coesistono con, e sono al servizio di, un regime in espansione di repressione salariale e degrado sociale, soprattutto nel Sud.
La “Thailandia d’Europa”
I media, quando riportano questi sviluppi, spesso tradiscono la stessa logica. Si pensi al titolo del Guardian che descrive la Grecia come “la Thailandia d’Europa“. È accattivante, ma cosa nasconde? Il paragone implica che il superlavoro e lo sfruttamento siano estranei all’Europa, che arrivino da altrove, come una malattia tropicale. Il sottotesto è civilizzatore: la vera Europa non si comporta in questo modo. La Thailandia, in questo contesto, non è solo un altro Paese; è un simbolo dell’alterità del sottosviluppo, dei regimi di lavoro autoritari, del basso costo. E così la crisi della Grecia viene narrata come un processo di non europeizzazione.
Questo non è giornalismo. È riproduzione ideologica. La Grecia non sta diventando come la Thailandia. Sta diventando se stessa sotto gli interessi del capitale europeo. Le stesse aziende che utilizzano il Sud-Est asiatico come base produttiva iper-sfruttata stanno ora trovando opportunità nell’Europa meridionale. Gli stessi meccanismi di sorveglianza, flessibilizzazione e precarietà vengono tradotti e localizzati. La stessa logica di classe guida entrambi. Semmai, il titolo “la Thailandia d’Europa” rivela il vero volto dell’UE: un’unione costruita non sulla solidarietà, ma sulla stratificazione geografica, razziale ed economica.
È importante capire che queste metafore plasmano il nostro mondo. Esternalizzando la crisi, i media partecipano alla riproduzione delle gerarchie che pretendono di denunciare. Il Nord diventa il modello, il centro razionale. Il Sud diventa il fallimento, il deviato, il corrotto. Questo è l’orientalismo interno del progetto europeo, un ordine simbolico in cui la povertà e la lotta in Grecia non sono viste come sistemiche, ma come sintomi di inadeguatezza culturale/economica. In questo ordine, nessuno si chiede perché gli esportatori tedeschi beneficino di un euro debole ancorato ai salari depressi del Sud. Nessuno si chiede perché le regole dell’UE consentano massicci flussi di capitali ma limitino il sostegno fiscale. Nessuno si chiede perché, decennio dopo decennio, agli Stati periferici venga detto di tagliare la spesa pubblica e deregolamentare il lavoro “per il loro bene”.
Riconfigurazione di classe
Quello a cui stiamo assistendo è la riconfigurazione in tempo reale della struttura di classe europea. Al suo posto sta emergendo una divisione continentale del lavoro. Le economie centrali mantengono la loro base industriale e le loro istituzioni finanziarie. La periferia è invitata a competere attraverso i prezzi bassi, non l’innovazione. Questa non è la “convergenza” promessa dai tecnocrati. È un’asimmetria permanente.
Il velo ideologico è che tutto questo sta avvenendo sotto la bandiera della democrazia e dei valori condivisi. Ma quali valori possono giustificare giornate lavorative di 13 ore in un paese devastato dalla disoccupazione e dalla fame? Quale legittimità democratica sopravvive quando le persone che vivono questa realtà non hanno il potere di ribaltarla, quando i governi si alternano ma le politiche rimangono fisse, dettate da regole invisibili e da consigli non eletti?
Questo è il significato del dominio di classe nell’Europa di oggi: non repressione diretta, ma impasse strutturale. Non censura, ma ricatto economico. Non carri armati, ma fogli di calcolo. In un sistema del genere, leggi come la nuova normativa sul lavoro in Grecia non sono errori, ma progetti. Sono il risultato logico di un progetto che valorizza il capitale rispetto alla comunità, l’efficienza rispetto all’uguaglianza e la sopravvivenza rispetto alla dignità.
Quello che è successo in Grecia è una storia europea. E non è finita.
CREDITI FOTO: WikiMedia Commons

Scrittore e giornalista indipendente, è un rifugiato politico ad Atene, in Grecia. Scrive regolarmente di Iran, Medio Oriente, violenza ai confini e condizioni dei rifugiati in Grecia e in Europa.