di Ilaria Masieri – Il giorno 724 del genocidio israeliano a Gaza si è chiuso con la presentazione del cosiddetto piano Trump per Gaza. Alla presenza del Primo Ministro israeliano, ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, e senza la presenza – ma neppure, abbiamo appreso poi, la consultazione – dei negoziatori palestinesi. 

Il “piano” si apre con un assunto fondamentale, che probabilmente basta a comprendere quali siano le priorità di Israele e dei suoi alleati: la Striscia di Gaza deve essere liberata dal terrorismo, smilitarizzata affinché non ponga più alcuna minaccia per i suoi vicini. Questo assunto traccia il filo che coerentemente si svela nei 19 punti successivi: la minaccia, la colpa, il peccato originale è dei e delle palestinesi. In particolare di coloro che vivono nella Striscia di Gaza, inclusi naturalmente tutti coloro che, cacciati dalle loro case nel 1948 o nel 1967, vi vivono da rifugiati a cui è negato da sempre il diritto al ritorno nella loro terra (si tratta del 70% della popolazione della Striscia). 

Sono dunque i palestinesi, in particolare coloro che vivono nella Striscia, la minaccia per la sicurezza del Medio Oriente. Non chi commette genocidio, chi pratica l’apartheid e occupa illegalmente territori altrui, non chi da sempre usa la punizione collettiva, la carestia, la tortura, il controllo malato di ogni aspetto della vita altrui come armi di guerra e di ricatto, ma chi tutto questo lo subisce. Sono i popoli in lotta la minaccia, e chi li domina è minacciato. Perché questo è e deve rimanere l’ordine globale.

Questa postura, colonialista e suprematista, ci dice tutto di quello che siamo noi. Noi occidentali, noi paladini della democrazia, del diritto, dell’uguaglianza e della civiltà.

Ai Palestinesi spetta in questo “piano” solo il diritto (condizionato) alla sopravvivenza. E qui il testo snocciola senza pudore tutto quello che deve essere realizzato affinché i Palestinesi possano sopravvivere, e lo fa davvero con un candore che mette i brividi, ammettendo tutti quei crimini che fino a ieri erano indicibili, anzi negati: finiranno i bombardamenti indiscriminati via mare e via aria, cesseranno i colpi di artiglieria, l’esercito arretrerà di qualche chilometro (rimanendo saldamente dentro la Striscia, continuando ad occuparla illegalmente ma “senza annetterla”), gli aiuti umanitari verranno fatti entrare (così da riparare fognature, ospedali, panetterie – cioè tutte le strutture civili illegalmente distrutte, oltre a fornire acqua e cibo), torneranno ad avere un ruolo nella distribuzione Nazioni Unite – il cui ruolo è previsto espressamente, ricordiamolo, nella risoluzione 2720/2023, che è vincolante – e Mezzaluna Rossa (entrambe, come tutto il sistema dell’aiuto umanitario e non solo, decimate nelle strutture e nello staff durante il genocidio perché accusate di ospitare, impiegare, trasportare, “terroristi” e armi), il valico di Rafah sarà riaperto.


Leggi il testo integrale del piano Trump per Gaza in italiano


Così i palestinesi potranno sopravvivere e non essere espulsi (da Gaza, perché delle colonie, della pulizia etnica in Cisgiordania, dell’annessione di Gerusalemme Est, del diritto al ritorno non si fa menzione). E tanto basta perché debbano accettare – anzi, ringraziare – di rimanere occupati (e nuovamente colonizzati) da un nuovo regime, che nuovo non è: un protettorato in salsa contemporanea, che governerà solo la Striscia di Gaza, sancendo la definitiva frammentazione geografica di ciò che resta della Palestina. Solo sopravvivenza, quindi. Gli altri diritti vengono acquistati in cambio dei soldi dei Paesi arabi ricchi, che investiranno nella ricostruzione di Gaza rendendola bellissima, e utilizzando i Palestinesi come manodopera, esattamente come fa Israele da ormai quasi 60 anni (chi pensavate che le costruisse le colonie?). Su questo non vale la pena dilungarsi, perché il tema è davvero più profondo. Naturalmente, il diritto alla sopravvivenza è comunque condizionato a tutto il resto: se non accettate, Israele finirà “il lavoro”. Il genocidio, il crimine dei crimini, che da presupposto identitario prima (“una terra senza popolo per un popolo senza terra”), passando per l’atto concreto, diventa strumento di ricatto, quasi ineluttabile visione del mondo.

Non si può non chiedersi: per quale ragione al mondo si ignora una serie infinita di obblighi imposti dalle norme di diritto internazionale, e quelli che si contemplano vengono venduti come grandi concessioni? Per quale motivo non si reagisce non dico ai crimini compiuti ma a quelli pubblicamente premeditati? 

Non vi è una parola sulla giustizia internazionale, e non penso soltanto ai procedimenti in corso presso la Corte Internazionale di Giustizia e la Corte Penale Internazionale. Penso, ad esempio, ai resti di migliaia di persone che sono sotto le macerie delle loro case, delle scuole, degli ospedali, nelle fosse comuni. Alle prove che giacciono sotto quelle macerie, alle commissioni di inchiesta che quelle prove le dovrebbero raccogliere e che non sono neppure nominate. Penso ai risarcimenti per chi ha perso tutto; la casa, il lavoro, la salute, i propri cari, ogni cosa.

Penso anche all’amnistia per quei miliziani (palestinesi) che “volessero arrendersi e deporre le armi”. Che ovviamente contiene come sottinteso corollario un’amnistia che non viene neanche nominata, quella verso Israele.

Spesso invito le persone con cui mi confronto sulla questione palestinese a fare il gioco dello specchio (cosa penseresti se a dire questa frase, a compiere questo crimine, a pubblicare questa foto o questo commento fosse, invece di un israeliano, un palestinese?). Ma qui siamo molto oltre. Qui non si tratta più di discernere ma di espiare. Non è più un problema di comprensione dell’altro, ma di sé stessi.

Questo “piano”, ma soprattutto le aperture occidentali che ha prodotto, ci dicono una cosa che sgomenta: anche per molte e molti che ormai si riempiono la bocca di “genocidio”, “occupazione”, “autodeterminazione”, è iniziato tutto il 7 ottobre 2023. Ecco, magari non proprio quel giorno, ma è come se il 7 ottobre 2023 fosse diventata una metafora (c’è stato del resto un 7 ottobre 2023 per ogni offensiva militare israeliana, per ogni crimine, per ogni violenza): ogni volta che i palestinesi escono dal ruolo di brave vittime, di poveri bambini polverosi, di orfani, di donne oppresse dal velo e dall’Islam, ogni volta che osano smettere di incarnare lo stereotipo di cui noi abbiamo bisogno per non sentirci in colpa, tutto – ma proprio tutto – quello che Israele ha commesso fino a quel momento viene condonato. E un nuovo assegno in bianco viene firmato. E sarà così anche stavolta. Se Hamas non accetterà il piano la colpa sarà la sua, il genocidio in occidente non avrà più quello stesso sapore intollerabile. “È complesso”, torneremo a dire.

Ho sentito anche dire, come se fosse un complimento, che questo “piano” in fondo è molto simile al “piano arabo” presentato qualche mese fa dal Ministro degli Esteri giordano. Lo è, in effetti. E quindi? E quindi ecco l’altro stereotipo, anch’esso fondativo (ricordate “i palestinesi potevano avere uno Stato nel 1947 ma hanno rifiutato”? Fatemi il nome di un palestinese che fu consultato – anche allora – e smettiamola di pensare che nei Paesi arabi le nazionalità non facciano alcuna differenza!): tutto quello che va bene “agli arabi” va bene ai palestinesi, perché alla fine sono della “stessa razza”, son tutti musulmani, son tutti beduini, son tutti – signore e signori – inferiori.

Qui mi fermo, ma un’ultima cosa la voglio dire: l’unica cosa che sappiamo fare bene, noi occidentali civili democratici liberi eccetera, verso i palestinesi, è tradirli. Li abbiamo traditi sempre. La disumanizzazione è colpa nostra. La criminalizzazione di ogni forma di dissenso Palestinese è colpa nostra. La banalizzazione del complessissimo e ricchissimo tessuto sociale palestinese è colpa nostra. Perché quando noi vediamo un diritto tolto ad “uno come noi” ci agitiamo, ci preoccupiamo, pensiamo che potrebbe davvero succedere anche a noi. Torniamo guevariani in un istante. Ma se lo tolgono ai palestinesi (anch’essi visti come metafora di tutto il Sud del mondo), magari ci indigniamo, ma non ci preoccupiamo per noi stessi. Questo non ci toglie dignità, diritti, o libertà. E intanto, il popolo palestinese ha creduto a tutto quello che gli abbiamo propinato: tavoli di negoziato, accordi, risoluzioni, procedimenti giudiziari, tutto. Invece gli israeliani no. Non hanno rispettato mai un accordo, ormai addirittura bombardano i negoziatori. E invece sapete cosa c’è? Che se volessimo davvero fare un po’ di giustizia, il popolo palestinese dovrebbe stare con le mani in mano, a guardare Israele che fa tornare i rifugiati nella loro terra, restituisce le case, i soldi, la terra, smantella le colonie, restituisce i luoghi santi, le risorse, i prigionieri e tutto il resto. La verità è che siamo noi ad aver deciso, noi che continuiamo a decidere che a vincere sia Israele. E lo faremo anche stavolta, perché l’unica cosa che esce completamente illesa da due anni di genocidio è il nostro pensiero coloniale.


Ilaria Masieri è operatrice umanitaria di AOI Palestina.


CREDITI FOTO: ANSA

Se hai apprezzato questo articolo o ti è parso interessante, sostieni il nostro lavoro con un contributo libero. Grazie!
Lascia una risposta