La Handala, un ex peschereccio norvegese, è diventata negli ultimi giorni un simbolo internazionale di resistenza civile. Come parte della Freedom Flotilla Coalition, questo piccolo vascello ha sfidato il blocco navale israeliano a Gaza, seguendo le orme della Madleen, una nave simile sequestrata poche settimane prima in acque internazionali. Nella notte tra il 26 e il 27 luglio, le forze israeliane hanno ripetuto l’operazione, intercettando l’Handala e deportando illegalmente il suo equipaggio, tra cui gli italiani Antonio Mazzeo e Tony La Piccirella. Attraverso le parole di quest’ultimo abbiamo ricostruito quei momenti e il periodo di detenzione successivo, un esempio di come cittadini comuni possano dare vita a gesti di disobbedienza morale contro le politiche di assedio israeliane.
Tony, trentacinque anni, è nato e cresciuto a Bari. Sin da quando ha vent’anni ha militato in movimenti radicali per la giustizia sociale e climatica, conducendo le sue prime battaglie sul diritto all’abitare. La sua attenzione si è poi allargata a temi come il colonialismo e l’imperialismo, spingendolo a viaggiare per approfondire la sua conoscenza. Lasciata l’Italia, ha attraversato il Nord, il Centro e il Sud del continente americano. A Tijuana ha fornito supporto durante l’ondata migratoria dall’Honduras, vedendo da vicino la difficile condizione di migliaia di persone bloccate al confine con gli Stati Uniti. Ha avuto inoltre l’opportunità di entrare in contatto con movimenti indigeni in Messico e Colombia. «Sono esperienze che trasformano» afferma. «Ti costringono a rimettere in discussione ogni punto fermo e ogni privilegio». Rientrato a Bari due anni fa, ha riscoperto il legame con il mare, sentendolo come luogo di rinascita e incontro. Da qui, il suo impegno nei progetti di solidarietà sulle rotte mediterranee è sfociato nell’adesione alla Freedom Flotilla, durante l’estate scorsa.
La prima domanda sul suo stato d’animo dopo l’esperienza trova una risposta risoluta: «Mi sento meglio di prima. Più allineato a quello che provo». Tony descrive un senso di scollamento precedente, dove tratteneva le emozioni, contrapposto alla sua condizione attuale in cui corpo e mente possono sostenere passioni più forti. Soprattutto la rabbia, a suo dire, ha trovato una legittimazione. «Lì, su quella barca, in quel gruppo, la rabbia aveva spazio. Poteva esistere». Questa possibilità di espressione, spiega, è quasi assente in Italia. Qui lo sdegno viene ignorato dai media e represso dai governi. Questo, secondo la sua analisi, isola gli individui e quando il sentimento non trova sfogo, degenera in frustrazione, sconfitta e silenzio. Un silenzio che, afferma, «fa male».
Oggi si sente meno solo, proprio perché la missione ha rotto quell’isolamento. Riconosce che il contatto quotidiano con il genocidio in Palestina, mediato unicamente dagli schermi dei nostri telefonini, genera un peso emotivo portato in solitudine. Le immagini consumano l’animo e addossano un dolore senza condivisione. La missione ha sovvertito questa condizione. «Ho avuto il privilegio di vivere quella missione con venti persone che condividevano la stessa rabbia, la stessa determinazione. E questo ha cambiato tutto. Mi ha permesso di sciogliere blocchi che mi portavo dentro da tempo. Mi ha dato la possibilità di sentirmi parte di qualcosa che non chiede il permesso per esistere» rimarca.
È questo peso che ti ha spinto a partecipare alla missione della nave Handala?
«La ragione, per me, è molto più semplice. Israele sta cercando di sterminare il popolo palestinese. E in questi due anni nessuno ha fatto abbastanza per impedirlo. Alcuni non hanno fatto proprio nulla. Altri, peggio ancora, sono complici. E questo, già da solo, mi pare un motivo sufficiente per agire. I governi troppo spesso muovono le loro scelte per denaro o per calcolo politico. In tutto questo, un’azione diretta, civile, collettiva, mi è sembrata più onesta. E anche più mia. Più vera. Ora che sono tornato, posso anche dire che ha avuto un impatto più concreto di qualunque cosa abbia fatto finora il governo italiano. C’è però anche una ragione più personale. La conosciamo tutti: quella sensazione di impotenza che ci accompagna da mesi. Ma è una percezione, appunto. Non è reale. Solo che, se resta lì, inascoltata, ci paralizza. E l’inazione di fronte a una violenza di queste proporzioni diventa tossica. Profondamente tossica. Ti logora la mente. Ti sfianca. Ti fa credere che non esista più alternativa. Per questo credo che sia fondamentale dare corpo a quello che proviamo. Fisicità. Espressione. Che sia rabbia, amore, paura, indignazione, non importa. Quello che conta è tirarlo fuori. Condividerlo. Renderlo collettivo per trasformarlo in azione. Per rifiutare il ruolo di spettatori, per smettere di sentirci alla mercé di governi lontani, assenti, corresponsabili. Ed è terapeutico. Veramente. Lo consiglio a chiunque: parlarne. Con la propria famiglia, con gli amici, con i colleghi. Organizzarsi. Fare qualcosa. Qualsiasi cosa. Non serve essere militanti esperti, non servono titoli o bandiere. Serve esserci. Perché ciò che sta accadendo in Palestina è l’apice di una violenza coloniale, capitalista e imperialista. Ma questa violenza ha radici qui. È nata in Europa. È cresciuta negli Stati Uniti. Ha preso forma nei nostri governi, nei nostri eserciti, nelle nostre economie. Ignorarla, restare fermi, significa soltanto lasciarle spazio».
Tony descrive un’assenza quasi totale di paura e timore durante l’abbordaggio, condizione che attribuisce non a incoscienza ma a una certezza interiore. «Avevo pochissimi dubbi su quello che stavo facendo» spiega. «La paura spesso nasce dall’incertezza. Ma su quella nave tutto era chiaro». Ciò che invece lo ha travolto fin dall’arrivo della marina israeliana è stato un «disgusto feroce». Un sentimento viscerale verso le forze armate e il loro modo di osservare gli attivisti. «Ci guardavano come un inconveniente da gestire» racconta. «Quel modo di negare la tua umanità è stato ciò che mi ha colpito più profondamente». La freddezza degli sguardi, la routine repressiva e la disumanizzazione sono gli elementi che hanno lasciato un segno più profondo di qualsiasi minaccia fisica. In quel momento, la missione dell’Handala si è rivelata anche uno specchio crudele, capace di riflettere la natura disumanizzante dell’occupazione.
Quella calma e lucidità trovano spiegazione anche nella sua neurodivergenza. «Sono neurodivergente e al momento non assumo farmaci» precisa. «Questo fa sì che in situazioni ad alta tensione o molto adrenaliniche io entri in una specie di stato iperfunzionale. Succede così: tutto si stringe, si mette a fuoco. Sento di avere un controllo estremamente lucido, sia su me stesso che su ciò che mi circonda. È come se ogni dettaglio diventasse leggibile, ogni movimento prevedibile». Questa condizione lo ha reso particolarmente efficace nei momenti decisivi. In qualità di responsabile della sicurezza, nei giorni precedenti, aveva simulato ogni possibile scenario di avvicinamento israeliano, provando e riprovando ogni procedura. Quando le navi israeliane hanno iniziato a inseguirli due ore prima, l’equipaggio ha virato verso l’Egitto, contattando le autorità egiziane, sia portuali che marittime, per chiedere un passaggio sicuro nelle loro acque. La richiesta è stata accolta, tanto da indicare loro un punto preciso dove ancorarsi, vicino a Port Said. Subito dopo, però, la marina israeliana è intervenuta e li ha fermati.
Durante il sequestro da parte della marina israeliana, avete subito una sorveglianza video continua e le comunicazioni con chi seguiva la vostra navigazione sono state immediatamente interrotte. Com’è stato vivere questa forma di controllo?
«Insieme ai militari armati di mitra, c’era anche un soldato con la telecamera. Basta quello per capire tutto. L’immagine fa capire chiaramente come nei conflitti odierni i media sono strumenti essenziali per forgiare il consenso. Era lì per filmare le infermiere che, goffamente, cercavano di darci da mangiare mentre eravamo già in sciopero della fame. La scena era preparata per costruire una clip utile a ripulire l’immagine dell’IDF. Un esercito che, magnanimo, nutre gli europei e gli americani ingenui che hanno osato sfidare il blocco navale. Era una messinscena talmente disperata, talmente chiara, da risultare grottesca. Se c’è una cosa che quella camera dimostrava, è che Israele, per portare avanti uno sterminio, ha un disperato bisogno che i suoi alleati continuino a pensare che siano delle “brave persone”. Hanno bisogno di legittimarsi. Di fingersi democratici. Di vendere umanità mentre producono morte. Ma il teatro è crollato davanti ai nostri occhi. E ha continuato a franare anche dopo. Quando ci hanno portati nelle celle, a me hanno assegnato un isolamento senza rubinetto. Così, se volevo bere, dovevo chiedere. E a quel punto arrivava un militare dell’IDF col passamontagna, seguito da una telecamera. Dovevano filmare il momento in cui mi davano un bicchiere d’acqua. Perché per loro l’acqua non è un diritto, ma una concessione. Una gentilezza da esibire. Un gesto di clemenza che va registrato, come fosse un dono. E questa è una cosa che fa paura. Perché se persino con persone europee e americane, con passaporti potenti e nazionalità di governi complici, tentano di costruire un dispositivo così pervasivo, figuriamoci altrove. Figuriamoci in Palestina. Lì però non servono le telecamere. Lì occorre spegnere le comunicazioni. Tagliare le linee. Uccidere i giornalisti a vista. Lì non c’è bisogno di fingere umanità. Basta mettere in fila chi cerca aiuti umanitari, quelli che lasciano passare col contagocce solo per controllare meglio la popolazione, e poi sparare sui corpi in attesa».
Com’erano le condizioni di detenzione?
«Il centro di detenzione era uno schifo. Sporco, lurido. I letti non esistevano. Solo pezzi di gomma dura buttati per terra. Eravamo trattati come cani. Nessuna possibilità di sentire un avvocato. Nessuna chiamata alla famiglia. Nessuna ora d’aria. Niente. Solo isolamento e umiliazione. Eravamo tutti in sciopero della fame. Tutti con una posizione netta. Questo, evidentemente, li ha messi in difficoltà. E credo sia uno dei motivi per cui hanno deciso di liberarsi di noi il prima possibile, perché stavamo attirando su di loro un’attenzione che non potevano controllare. Le incursioni le chiamavano “controlli di routine”. Ma erano umiliazioni. Le squadre antisommossa ci facevano spogliare completamente, fare squat ripetuti, piegarci davanti a loro. Non cercavano niente. Cercavano di spezzarci. Non ci sono riusciti. Sentirsi parte di un gruppo così coeso ci ha dato forza. C’erano momenti duri, certo, momenti in cui qualcuno si chiudeva, si difendeva come poteva. Ma eravamo uniti. Eravamo una squadra di pazzi, e per fare una missione del genere non puoi essere una persona “normale”. Lì dentro ogni personalità forte tirava su l’altra. Ci siamo sostenuti. Senza nemmeno dovercelo dire. La motivazione non è mai mancata, è sempre stata viva. In ogni momento, anche nei più difficili, ci bastava pensare al popolo palestinese. A quello che subisce ogni giorno. A come risponde, con una dignità che ci ha ispirati dall’inizio alla fine. È stato difficile, eppure, noi non abbiamo vissuto nemmeno una minima parte delle loro sofferenze. Ed è anche in sostegno di questa sofferenza che abbiamo scelto di intraprendere lo sciopero della fame. Non è stata una decisione improvvisata, ma una scelta lucida, maturata prima ancora di salpare. Nel momento in cui fossimo stati intercettati, avremmo iniziato tutti insieme lo sciopero. Le ragioni di questa scelta andavano oltre il volersi sottrarre alla loro propaganda, rifiutando di essere parte della messinscena in cui avrebbero provato a riprenderci mentre ci davano da mangiare per mostrare un’immagine benevola dell’IDF. Era un gesto di solidarietà verso il popolo palestinese, che subisce una carestia voluta ogni giorno, lontano dalle telecamere. Volevamo denunciare l’ipocrisia di un esercito che offre un sandwich a noi occidentali mentre blocca gli aiuti umanitari, bombarda i panifici e spara su persone in fila per un sacco di farina. Le donne del gruppo sono andate oltre, riuscendo addirittura a sostenere anche uno sciopero della sete. La loro forza ha dato ulteriore determinazione a tutti noi».
L’attivista pugliese ha vissuto, seppure solo per poche ore, condizioni che molti palestinesi affrontano ogni giorno. Nonostante questo, non si sente di paragonare la sua esperienza a ciò che subisce il popolo palestinese. «Però ho visto il volto che ha questo genocidio», ha raccontato, descrivendo lo sguardo dei soldati israeliani, i loro «sorrisi storti» e il loro «sghignazzare» mentre circondavano il gruppo.
Ha percepito il disperato bisogno di giustificarsi di fronte a governi già complici e la rabbia repressa nei gesti dei soldati. «L’ho sentita addosso, fisicamente. E questa cosa mi ha inquietato».
Ciò che lo ha colpito di più è la sproporzione tra la loro missione e la reazione subita. «Eravamo su un vecchio peschereccio norvegese pieno di peluche, latte in polvere e qualche scatola di medicine. Se riescono a odiare con questa intensità ventuno persone disarmate, inoffensive, che cercano solo di portare qualcosa, per quanto piccolo, alle coste di Gaza, allora viene da chiedersi quale sia il livello di odio che riversano ogni giorno su chi quella terra la abita», invita a riflettere Tony.
Hai ricevuto un sostegno concreto dalle rappresentanze consolari o dalle istituzioni italiane durante la detenzione?
«Ho parlato con la console, l’ho incontrata appena arrivato a Ashdod. Mi ha invitato a firmare il rimpatrio volontario ma ho deciso di rifiutare perché firmare quel foglio significava ammettere di essere entrato illegalmente in Israele. E invece io sono stato sequestrato e dirottato. Lei mi ha spiegato che, se mi fossi rifiutato, sarei stato portato in un centro di detenzione. E così è stato. Dopo di che, ha detto chiaramente che non avrebbe potuto fare più nulla. La Farnesina, invece, non l’ho mai sentita. Forse, dietro le quinte, hanno fatto qualcosa, ma il trattamento che ho ricevuto è stato lo stesso riservato agli altri membri dell’equipaggio, ovvero, nessun privilegio e nessuna protezione. E, soprattutto, nessuna pressione pubblica per difendere una missione umanitaria o almeno per proteggere un cittadino italiano vittima di un sequestro illegale in acque internazionali. Perché questo è successo. Io ero un cittadino italiano, in acque internazionali, su una nave con bandiera inglese. L’unica autorità che poteva intervenire era quella italiana o quella britannica. Israele lì non aveva alcun diritto. Ha compiuto un atto illegale che non chiamo nemmeno pirateria, perché i pirati, almeno, fanno meno i moralisti».
Oltre un milione e mezzo di abitanti di Gaza non sopravvivranno a quest’estate, a meno che la carestia imposta da Israele non venga interrotta subito. Per questo Kritica ha lanciato un appello a ONG, Marine nazionali, compagnie di crociera e a chiunque possieda un’imbarcazione, chiedendo di fare rotta verso Gaza per rompere il blocco navale illegale e portare aiuti. Tony sostiene con forza questa iniziativa: sono «iniziative che avrebbero la capacità di fare grande pressione affinché si possa mettere la parola fine a questo sterminio».
La Piccirella sottolinea, inoltre, l’importanza del ruolo dei civili. «Noi non siamo né politici, né istituzioni, né militari. Siamo persone normali. Se la missione con la Handala può ispirare o motivare qualcuno a farsi più coraggio e mobilitarsi, ha già vinto», ha affermato.
La sua presenza in Israele ha rappresentato un problema evidente per le autorità, poiché «la visibilità e il caso diplomatico non erano assolutamente graditi lì». Secondo Tony, «stai già facendo qualcosa di buono se arrivi a risultare fastidioso».
Da quando si è imbarcato, osserva che sempre più persone stanno prendendo posizione. «Vedo che molte più persone stanno decidendo di schierarsi». La gente si sente meno impotente e passiva e prende parte attiva nella pressione esercitata sui governi perché ogni conflitto termini. Ogni azione serve, ha concluso. «Goccia dopo goccia riusciamo a rompere questi muri, a far cadere il blocco navale e il blocco via terra che stanno sostenendo questo genocidio».
Guardando indietro a tutta l’esperienza, cosa pensi sia stato il risultato più importante della missione Handala?
«In Palestina molte persone hanno perso quasi tutto, vivono sotto bombardamenti e minacce costanti da anni, vengono private del necessario eppure trovano ancora la forza di cercarsi tra le macerie, aiutarsi, restare sulla propria terra e difenderla. Queste donne e uomini oggi affrontano il punto più feroce della violenza colonialista, imperialista e capitalista, ma la sua resistenza ispira molti a riprendere possesso della propria coscienza e a mobilitarsi. Non siamo impotenti. La percezione di impotenza è indotta da media, social network e governi, ma non è reale. Noi possiamo cambiare le cose e aver portato l’attenzione sul blocco navale, grazie alla missione Handala, è stato un risultato fondamentale. Si parla spesso di aiuti umanitari, ma se questi aiuti sono gestiti da chi sta compiendo un genocidio, diventano uno strumento di controllo. Il popolo palestinese ha la sua storia e la sua terra, e deve essere proprietario della propria vita e degli aiuti umanitari che entrano nel Paese. La mobilitazione prima, durante e dopo la nostra missione ha prodotto una catena virtuosa, coinvolgendo anche chi normalmente rimane distante dall’attivismo e dai movimenti sociali e politici. Potersi rispecchiare, anche solo per un istante, in persone comuni come noi e sentirsi più forti, tanto da riuscire ad affrontare uno dei mostri più spaventosi di questo pianeta, è un segnale potente che mi rende orgoglioso di aver partecipato alla missione».

Giornalista multimediale, documenta storie di prima linea attraverso pubblicazioni internazionali, podcast, libri e fotogiornalismo. Da anni si dedica alla copertura della questione palestinese, delle violazioni dei diritti umani e delle ingiustizie sociali nel mondo.