Tutto quello che resta di te, della regista e attrice palestinese-americana Cherien Dabis, nei cinema italiani dal 18 settembre scorso, si presenta fin dalla locandina per quello che è: un ritratto di famiglia palestinese, una famiglia seguita nelle sue vicende per un trentennio. Ma nella storia di ciascuna famiglia palestinese è scritta la storia di un popolo intero. Dalla presa di Jaffa nel 1948, fino allo scoppio della prima Intifada in Cisgiordania occupata, fino ad arrivare a oggi, a qualche mese prima del 7 ottobre 2023, seguiamo la storia di una famiglia, le vicende di un padre che poi diventa nonno, di un figlio che diventa padre, di un bambino che crescerà. Tutto ciò che c’era prima del 7 ottobre, si potrebbe sintetizzare a beneficio di chi insiste – stoltamente e stolidamente – ad affermare che sia stata quella la data spartiacque, la data che ha cambiato tutto. Invece se accostarsi alle vicende palestinesi insegna qualcosa, è proprio che i giorni di svolta esistono, sì, nella vita degli individui, ma la storia dei popoli si scrive sui tempi lunghi, i tempi del passaggio da una generazione all’altra. Non esistono plot twist, esiste il tramandarsi di un peso, generazione dopo generazione, e decidere cosa fare con quel peso; se scaricarselo di dosso per lanciarlo su un popolo altro, e decidere così che qualcun altro dovrà essere sacrificato, o prendere in mano il proprio sacrificio e farne motivo di riscatto. Questo è quello che insegna anche questo prezioso film – distribuito in Italia da Officine UBU e candidato per la Giordania agli Oscar 2026 dopo aver già vinto numerosi premi internazionali –, ispirato anche alle vicende personali della famiglia dell’autrice. La troupe aveva iniziato a girare in Palestina appena prima del 7 ottobre, e poi è stata costretta a lunghi stop e spostamenti per poter portare avanti le riprese.

La storia del popolo palestinese è la storia di un sacrificio storico: sottomettere un popolo per poter erigere una nuova nazione. E questo sacrificio, come mostra il film, comincia con la colonizzazione della terra palestinese, con la prima Nakba. Comincia con il giovane Sharif che da padre premuroso e appassionato di poesia, orgoglioso coltivatore di arance come tanti abitanti di Jaffa, si ritrova in un campo di prigionia, obbligato a lavorare per i coloni arrivati dall’Europa, a portare a spalla i loro pesanti mobili, i loro averi, affinché possano occupare le case dei palestinesi. La regista fa capire molto bene la strategia terroristica adoperata dal nascente Israele: spaventare, sfiancare le persone, affinché loro stesse decidessero di andarsene e svuotare le loro case. I pochi rimasti, per lo più uomini adulti, sarebbero stati utilizzati per lavorare come schiavi e facilitare l’insediamento del popolo sopraggiunto.

Chi legge avrà già fatto, a questo punto, le sue associazioni mentali. È la stessa strategia che Israele sta adottando ora a Gaza. Sfiancare, sfollare, schiavizzare, secondo il piano previsto per questa seconda Nakba. Condotta su un popolo che era già di profughi, giacché Gaza si è costruita proprio sui campi profughi di coloro che erano fuggiti dalle loro case durante la prima Nakba.

Il sacrificio prosegue con la vita di Salim, figlio di Sharif, figlio prediletto di un padre adorato, quando la vita era ancora libera dall’occupazione israeliana. A interpretarli sono rispettivamente Saleh Bakri e Mohammad Bakri, figlio e padre anche nella vita, mentre Sharif giovane è interpretato da Adam Bakri, figlio di Mohammad e fratello di Saleh.
Crescendo, Salim, unico rimasto in Palestina dei suoi fratelli, si trova a dover prendersi cura di un padre traumatizzato, segnato per sempre dall’oppressione. Intrappolato in una realtà in cui è obbligato a chiedere un permesso per ogni cosa e a pietire la sopravvivenza stessa, è difficile per lui, maestro appassionato delle scuole elementari, spiegare a un figlio che cosa vuol dire proteggere le proprie persone dalla violenza. E subirà così la punizione di Noor, il primogenito che, ancora bambino, anche grazie al rapporto speciale con il nonno svilupperà un patriottismo fiero e senza compromessi. Salim e sua moglie Hanan sono le braccia che, tessendo la vita fra una generazione e l’altra, si faranno carico del dolore, del trauma permanente, della sumud, la resistenza perseverante alla disumanizzazione, quella praticata dal nemico occupante così come quella che, a un certo punto, si può essere tentati di abbracciare in prima persona. Per i loro figli e oltre la vita dei loro stessi figli, cercando un universale nella loro esistenza. “Non sottovalutate il potere della vostra umanità”, dice loro l’imam quando gli si rivolgono per sciogliere il dilemma che li tormenta. Il dilemma di continuare a credere nell’umanità in quanto tale, senza per questo rinunciare all’unicità della propria storia, della storia del loro popolo, della loro famiglia. Non sottovalutare il potere della propria umanità, perché è tutto quello che rimane. Di un figlio, di un popolo, di una vita di oppressione e resistenza.

I palestinesi resistono perché sono “attaccati alla vita”, dice Basel Adra. Quello che resta di te lo racconta: racconta una storia di attaccamento alla vita oltre la morte. Una storia di attaccamento alla propria terra, dove si è stati obbligati a sentirsi “stranieri in patria”, dice Salim a un certo punto. E dove solo da stranieri, e se stranieri, si può tornare. Di attaccamento alla casa, che resiste anch’essa con la sua propria, silenziosa sumud. Di attaccamento alla lingua, questo mare nei cui abissi “si trovano tesori”, come recita la poesia che Sharif insegna a Salim da bambino, e che a quel suo mare, e ai suoi abissi, verrà riconsegnata in un momento di dolce riconciliazione.

È la stessa storia raccontata dall’amico Arkan al Sayed. Dall’amico e fratello Hamed Sbeata. Dalla comunità di Masafer Yatta, in Cisgiordania. Da ogni abitante di Gaza, in questi due anni. Dalla voce di Hind Rajab.

La storia che abbiamo deciso di ascoltare, comprendere, per dunque raccontare cosa abbiamo imparato, ogni giorno finché la Palestina continuerà a essere il luogo del mondo dove l’umanità di tutti muore e rinasce.

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