Sono giorni convulsi in Turchia: l’arresto del sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu (del partito secolarista CHP, erede della tradizione kemalista associata al “padre fondatore” della repubblica Mustafa Kemal Atatürk), da più parti riconosciuto come la maggiore figura d’opposizione al presidente Recep Tayyp Erdoğan, ha scatenato la più grande ondata di proteste da dieci anni a questa parte. Studenti, attivisti, rappresentanti politici, sindacati stanno scendendo in piazza in diverse città, talvolta scontrandosi con la polizia (il Ministero dell’Interno a oggi conta oltre 1100 arresti e più di 100 poliziotti feriti), esprimendo, ancora una volta, l’insoddisfazione per un sistema di potere che soprattutto dal tentativo di colpo di stato del 2016 in avanti si è fatto sempre più autoritario e repressivo. In particolare, coi recenti negoziati riapertisi fra il gruppo di guerriglia curda del PKK e lo stato turco è molto probabile che il governo a guida AKP volesse fra le altre cose dividere l’opposizione (che da almeno un paio di tornate elettorali mostra segni di essere maggioritaria nel paese): attirare a sé appunto la fiducia delle forze filocurde, con la promessa di pace e della liberazione di Abdullah Öcalan (che dal carcere di Imrali ha lanciato un appello per deporre le armi), per indebolire l’alleanza con il partito di İmamoğlu.
Strategie in cui giocano un ruolo anche gli sviluppi in Siria, che hanno visto negli ultimi mesi la caduta di Assad e la formazione del nuovo governo di al-Shara, così come in generale gli equilibri della regione: è notizia della scorsa settimana che proprio sul territorio siriano Israele, mentre ha ripreso la sua guerra contro Gaza, continua a condurre strike aerei che lo mettono in uno stato di crescente rivalità con la Turchia, che a sua volta esercita la propria influenza su Damasco. Secondo alcune analisi, addirittura, potrebbe trattarsi del preludio di un conflitto aperto fra Ankara e Tel Aviv. Allo stesso tempo, non da oggi, anche la diplomazia israeliana prova a “corteggiare” le popolazioni curde (così come i drusi), per giustificare la propria aggressività militare attraverso una supposta protezione delle minoranze. Sono fili complessi e contraddittori, che affondano le loro radici nei peculiari rapporti fra le comunità e le tradizioni politiche dell’area e che si dipanano sulla scorta di una storia fatta di intrecci, scontri e inaspettate alleanze. Una storia in cui spesso la Palestina occupa un posto di “pietra angolare” nel determinare retoriche e posizionamenti. Di seguito una conversazione con uno degli esponenti in Turchia della solidarietà “da sinistra” alle popolazioni di Gaza e della Cisgiordania, raccolta a febbraio (prima dunque dei più recenti eventi, ma comunque in un clima già di montante cambiamento), che prova a render conto di questi “riflessi” nella politica della repubblica anatolica – riflessi a volte rimangono sottotraccia, o addirittura a livello inconscio, altre volte illuminano ipocrisie e strumentalizzazioni che sono spesso la cifra dell’attuale governo, contro cui aleggia un malcontento crescente.
Il detto per cui “la geografia è un destino” potrebbe suonare come un assunto razzista o, al limite, una fantasia di determinismo geopolitico. Eppure, perlomeno se parliamo di stati e governi, è innegabile che i contesti influiscano sulle azioni così come la storia, anche secolare, giochi un ruolo nell’inconscio collettivo e, di conseguenza, sugli orientamenti che le società esprimono rispetto a certe questioni. «Se parliamo dei rapporti con Israele, non dobbiamo dimenticare che la Turchia ha spesso avuto un ruolo di “ponte”, o ancora meglio di “porto”, fra est e ovest, fra occidente e mondo arabo», ci dice dal tavolo di un bar della zona centrale di Istanbul Nicola Saafin, attivista palestinese che da vent’anni vive nella smisurata metropoli che si dipana a cavallo del Bosforo.
Impegnato col movimento BDS (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele), animatore di diverse iniziative di solidarietà con la Palestina e con un’inclinazione politica che guarda a sinistra, tanto in Turchia quanto a Gaza o in Cisgiordania, Nicola prova a fare il punto sugli obiettivi raggiunti grazie a suoi sforzi e quelli dei suoi compagni così come sulle contraddizioni che attraversano il contesto anatolico. «Sicuramente siamo riusciti a porci come un soggetto abbastanza visibile da far sì che il governo non potesse più mettere la testa sotto la sabbia e almeno a livello superficiale fosse costretto a prendere dei provvedimenti», racconta. «Nei nostri quindici anni di esistenza abbiamo accumulato esperienza e contatti e abbiamo posto le basi per una collaborazione abbastanza stretta con sindacati, altri gruppi e altre piattaforme di sinistra, con il movimento curdo. Così, la denuncia dei legami economici fra Ankara e Tel Aviv si è posta presso l’opinione pubblica come una questione di dibattito sentita – non solo per merito nostro ovviamente ma anche e soprattutto per via dell’entità dei crimini israeliani consumati a Gaza – e ha spinto anche una fetta degli stessi sostenitori di Erdoğan a mettere in discussione la legittimità del comportamento del loro partito». Ciò che infatti, dopo la brutale guerra mossa dal governo Netanyahu contro la popolazione di Gaza in risposta all’attacco dell’ala militare di Hamas del 7 ottobre 2023, è finito con maggior forza sotto i riflettori nella vita politica sono gli affari, piuttosto lucrosi, che lo stato turco intrattiene con il vicino israeliano. Stando alle cifre di due anni fa, il valore totale del commercio fra Ankara e Tel Aviv era pari a 6,8 miliardi di dollari in uno scambio di beni che includeva soprattutto acciaio, materiali da costruzione, attrezzature meccaniche e prodotti agroalimentari. In particolare, la Turchia era il quinto maggior partner commerciale di Israele per quanto riguarda le importazioni. È a partire da questo stato di cose che, in seguito all’offensiva contro Gaza, è nato, anche grazie al contributo di Nicola, il gruppo Filistin İçin Bin Genç (“mille giovani per la Palestina”): migliaia di attivisti e studenti che hanno organizzato acampade e proteste in diverse città, come Ankara o Istanbul, per contestare l’ipocrisia della leadership del paese. Si legge infatti dal loro sito: «Il governo AKP e il capitale turco, mentre si rivolgono ai palestinesi come i propri fratelli e le proprie sorelle, spediscono dai porti tonnellate di beni diretti verso Israele e si costruiscono i propri sogni di profitto sulle macerie della Palestina distrutta». Lo scorso primo maggio, cinque membri del gruppo sono stati arrestati. Erdoğan, però, nel frattempo è stato spinto ad annunciare la rescissione dei legami commerciali con Tel Aviv e, in parallelo, ha fatto sì che il governo turco si unisse ufficialmente alla causa contro Israele intentata dal Sudafrica presso la Corte Internazionale di Giustizia. Oltre alla preoccupazione per il montare delle proteste e per l’indignazione dell’opinione pubblica, la mossa arrivava dopo la sconfitta subita dall’AKP alle elezioni locali: con tutta probabilità, dunque, anche un modo per recuperare fiducia nell’elettorato.
A maggior ragione se, come hanno poi evidenziato alcune inchieste tra cui quella del giornalista turco Metin Cihan (che si è visto di recente i propri canali social bloccati) o quella del corrispondente italiano Italo Rondinella, la realtà è che nei fatti è cambiato ben poco e la svolta da parte di Erdoğan è stata soprattutto retorica. Spiega Nicola: «In Turchia la questione palestinese è da sempre un tema anche di politica interna, che viene utilizzato in maniera strumentale. La discrepanza fra ciò che viene dichiarato in pubblico e ciò che poi avviene nella concretezza dei rapporti fra stati è una conseguenza molto logica del fatto che una nazione come quella turca, da una parte erede dell’Impero Ottomano e dall’altra, come dicevo, “porto” fra est e ovest, ha sempre avuto bisogno di appoggiarsi a Israele per la propria stessa stabilità ma, al tempo stesso e soprattutto con l’arrivo di governi di tendenza più islamista come quelli a guida AKP, non può non schierarsi idealmente a favore dell’autodeterminazione palestinese». Nel 1949, infatti, la Turchia è stata il primo paese a maggioranza musulmana a riconoscere Israele. Le relazioni fra Ankara e Tel Aviv hanno da lì visto una serie di allontanamenti e riavvicinamenti, fino al famoso incidente della Freedom Flotilla del 2010 (in cui vennero uccisi otto cittadini turchi e una persona turco-statunitense) che rappresenta senza dubbio lo strappo più significativo e più eclatante della storia moderna del paese. Erdoğan si è inoltre distinto in diverse occasioni per aver mosso critiche veementi nei confronti del governo israeliano sia presso l’opinione pubblica interna che sulla scena internazionale, come al Forum di Davos nel 2009 (critiche che, è forse giusto notare, non sono sempre esenti da un’indebita sovrapposizione fra Israele e popolazione ebraica mondiale e che, talvolta, pescano anche argomenti dal repertorio di complottismo antisemita; una nota di colore: in gioventù, l’attuale presidente della Turchia fu autore di una drammaturgia teatrale dal titolo Maskomya che indica appunto un complotto “comunista-giudaico-massonico”). «Il nostro obiettivo ovviamente non è quello di avere un qualche ritorno di politica interna, per criticare il governo in quanto tale o per favorire l’opposizione», prosegue Nicola. «Ciò che ci preme è allentare i legami con Israele da parte della Turchia come forma di pressione, a prescindere da quale partito si trovi alla guida del paese. Per questo, abbiamo individuato un nocciolo di posizioni e principi non negoziabili che possano valere per il maggior numero di persone, anche di diverso orientamento o estrazione. Anche perché, la nostra battaglia non riguarda solo il bene del popolo palestinese».
Il riferimento di Nicola è a un’altra grande questione, che attanaglia nello specifico la Turchia e in generale l’intera regione (e che ha subito sviluppi molto rilevanti nelle ultime settimane), ovvero quella dell’autodeterminazione curda. Se è vero che Israele mantiene una posizione ambigua, che è sfociata anche nel pieno appoggio all’autonomia curda in alcuni contesti, come nel caso del referendum in Iraq del 2017, o in recenti aperture alla collaborazione con la guerriglia curda nel nord della Siria, la cooperazione commerciale-militare fra Tel Aviv e Ankara ha quasi sempre giocato un ruolo nella repressione di formazioni armate quali il PKK. Nel corso del tempo, a partire soprattutto dal 1996, i diversi accordi bilaterali hanno permesso alla Turchia di acquisire mezzi, intelligente e capacità per portare avanti operazioni di contro-terrorismo nel sud-est del paese. Secondo alcuni, lo scambio di informazioni con Israele sarebbe anche tornato utile per le incursioni militari effettuate contro l’autonomia curda nel nord-est della Siria (“Scudo dell’Eufrate”, 2016, “Ramoscello d’ulivo”, 2018, “Sorgente di pace”, 2019, e “Aquila d’inverno”, 2022). D’altra parte, le fazioni di sinistra della guerriglia curda e palestinese condividono una storia di mutuo supporto, cooperazione e sostegno ideologico: fra gli anni ‘70 e ‘80 i militanti del PKK ricevettero in Libano addestramento militare dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e dal Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (FDLP), esperienza che porterà poi i guerriglieri curdi a combattere assieme ai palestinesi l’invasione di Israele del 1982. In generale, anche la sinistra turca ha una tradizione di attivismo e sostegno in prima persona per la causa palestinese. È vero però che, fra intrecci di solidarietà e lotte condivise, soprattutto con gli sviluppi più recenti nella regione non poche sono state anche le frizioni: in particolare, la crescita alla guida della resistenza palestinese di un movimento di tendenza islamista come quello di Hamas (peraltro legata sotto diversi aspetti alla leadership dell’AKP, non da ultimo attraverso i comuni rapporti con la Fratellanza Musulmana), da un lato, e i cruenti confronti militari fra militanti curdi con lo jihadismo di Daesh così come i contrasti con la popolazione araba nelle zone di controllo curdo in Siria, dall’altro, hanno portato a una crescita di diffidenza reciproca. «Alcuni esponenti del movimento curdo hanno preso posizioni che contraddicono il loro tradizionale posizionamento», racconta ancora Nicola. «I potenziali benefici strategici che potrebbe ricevere l’autonomia curda del nord-est della Siria dall’appoggio israeliano portano diversi leader a pronunciarsi in termini positivi nei confronti di Tel Aviv. Ma, per quello che posso osservare anche io nel mio impegno quotidiano qui in Turchia, lo zoccolo duro del movimento resta filo-palestinese e partecipa al sostegno di un processo di autodeterminazione di un popolo oppresso che non può non ricordare lo stesso processo di lotta che interessa il popolo curdo».
Al di là degli episodi di alleanza o di dissidio concreti, infatti, un tema di interrogazione più ampia è quello che riguarda la lunga durata delle formazioni di stati e società e, se vogliamo, dei loro destini storici, e i possibili parallelismi fra Israele e Turchia. Fermo restando le molteplici differenze fattuali nei diversi percorsi (a partire dal fatto che la comunità curda combatté a fianco di quella turca durante la guerra di indipendenza), ha senso tracciare delle analogie critiche fra sionismo – “piattaforma” attorno a cui si sono riunite varie correnti politiche per l’autodeterminazione del popolo ebraico attraverso l’emigrazione nella Palestina sotto l’Impero Ottomano prima e in quella mandataria poi – e kemalismo – ideologia sulla cui base si è formata la repubblica turca indipendente, che assieme allo spiccato laicismo è andata col tempo anche assumendo tratti di etnocentrismo, o quanto meno di esclusivismo linguistico e culturale? Argomenta Nicola: «Dal mio punto di vista, che in un certo senso sta a metà strada fra i diversi contesti, i parallelismi sono evidenti. Anche molti membri della comunità curda muovono spesso questo tipo di critiche. Ma è vero che in generale in Turchia, anche dentro gli ambienti di sinistra, è difficile mettere in discussione gli aspetti più problematici del kemalismo: è comprensibile, perché significa mettere in discussione un fenomeno rivoluzionario che comunque ha messo fine all’impero e ha creato la repubblica moderna. Eppure, credo io, si tratta pur sempre di una “rivoluzione incompiuta”, di qualcosa che non ti puoi rivendicare come base per l’azione politica oggi e che deve dunque essere superata da un’ulteriore rivoluzione culturale, che sappia rifiutare gli atti di pulizia etnica e sappia includere i diritti dei popoli nativi». Il fatto è che certe caratteristiche del movimento ideologico che ha condotto alla formazione della Turchia moderna sembrano essere ancora all’opera nell’inconscio sociale così come negli atteggiamenti delle leadership delle forze politiche che più si ispirano al kemalismo, come il CHP: in maniera simile al modo in cui si sono andati strutturando i rapporti fra Ankara e Tel Aviv nella seconda metà del novecento permane, secondo Nicola, negli ambienti laici di sinistra un pregiudizio per cui le popolazioni arabe vengono considerate “arretrate” e, di conseguenza, Israele viene visto come un “baluardo di democrazia” o comunque un “avamposto dell’Occidente” nella regione del Levantino, che fa il paio con lo sforzo della repubblica anatolica di emanciparsi dalle proprie radici islamiche e orientali. È anche per questo che, a livello culturale e accademico (dove il CHP tende a essere maggioritario), i legami con il paese oggi retto da Netanyahu vengono spesso coltivati in maniera profonda. D’altra parte, l’elettorato dell’AKP tende a rifiutare questo tipo di legami su presupposti ideologico-religiosi per intrattenere però un fitta rete di rapporti economici, data la natura spesso marcatamente neoliberale e imprenditoriale dalla base dell’attuale governo turco.
La metafora del “paese-ponte” può essere calata nel concreto del ponte di Galata, che collega a Istanbul la parte più mondana di Beyoğlu con l’area del centro storico di Sultanhamet o del quartiere Fatih (dove tra l’alto ha sede la fondazione umanitaria IHH che da tempo si occupa di solidarietà con la Palestina): lungo questa striscia di cemento sul Bosforo lo scorso primo gennaio il partito di governo AKP ha chiamato a raduno decine di migliaia di persone contro il massacro israeliano a Gaza; qualche settimana più tardi, le forze di opposizione del CHP hanno organizzato la propria manifestazione, sia esprimere a loro volta il sostegno alla causa palestinese che per denunciare il doppio gioco di Erdoğan: il corteo è stato negato, ma il raduno si è potuto svolgere lo stesso perché alla fine presentato formalmente come una conferenza stampa (un diritto garantito dalla costituzione turca); nel frattempo, uno studente dell’Università di Marmara è stato sospeso perché chiedeva la rescissione dei rapporti con la struttura gemelle israeliana di Haifa. Sono i complessi strati di proteste e di una lotta mossa in Turchia da attori differenti, ciascuno coi propri interessi e pronto anche a un certo grado di strumentalizzazione, che si dipana in direzioni talvolta diverse e con accenti anche contraddittori: eppure, a discapito o forse proprio in virtù di tali stratificazioni, una lotta che chiama in causa l’intera società, il posizionamento dei suoi sotto-gruppi rispetto alla storia del paese, le decisioni politiche che da qui in avanti verranno prese – fra tentativi di organizzazione indipendente, ipocrisie di governo e calcoli elettorali, ipotesi di una rinnovata coscienza collettiva.

Giornalista freelance e critico teatrale. Collabora con varie testate fra cui il manifesto, Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa, Meridiano13, MicroMega.