È la serie più vista su Netflix e candidata certa ai premi più prestigiosi della prossima stagione. In sole 4 puntate, seguendo le nuove tendenze della serialità che stanno portando sempre di più ad assimilarla al cinema, “Adolescence” ha scosso gli spettatori e la critica, per via del modo originale e senza moralismi in cui racconta una vicenda di crimini in cui niente è come si vorrebbe, e tutto è come sembra.
Ogni episodio segue i protagonisti in un lunghissimo piano sequenza, senza effetti di montaggio. Ma non si tratta di un virtuosismo filmico, è al contrario un ritorno al realismo, a una vita vissuta realmente, con il cameraman in veste di osservatore, più da vicino o più da lontano, dall’alto di un drone o nei primi piani attaccatissimi dei protagonisti. È un modo per dire che questa è la realtà, ed è utile assistervi minuto per minuto per realizzare che siamo tutti immersi nella sua confusione.
È la confusione di una famiglia svegliata al mattino da un’irruzione di polizia che porta via un presunto omicida, Jamie Miller, figlio di Eddie e Manda Miller, fratello di Lisa Miller. Jamie ha 13 anni. Quando lo portano via è a letto, per la paura si bagna i pantaloni. Trascorreranno 13 mesi fra la prima puntata e l’ultima. 13 mesi dei quali assistiamo, in tempo reale, a 4 ore. La prima alla centrale di polizia, dopo l’arresto di Jamie. La seconda a scuola, quando i poliziotti vanno per cercare indizi e aiuti da parte degli altri studenti e insegnanti. La terza durante una seduta con la psicologa incaricata di incontrare Jamie. La quarta a casa Miller e poi nel loro furgone, seguendoli nell’impossibilità di riprendere una vita normale dopo quanto accaduto.
Adolescence mette in scena con sincerità drammatica la sconfitta degli adulti, la sconfitta e il fallimento nell’offrire un senso alle generazioni più giovani. Puntata dopo puntata assistiamo in presa diretta a questo sgomento: quello di poliziotti, genitori, insegnanti, psicologi, tutte le figure del mondo adulto finiscono a pezzi, vanno in crisi rendendosi conto che gli adolescenti al proprio mondo stanno dando un senso autonomo e spaventoso; non soltanto distante da quello delle figure adulte che li circondano, ma arreso alla violenza e alla sua normalità. La serie accenna, ma non tratta, i temi complessi della manosfera, del mondo Incel e dell’influenza che personaggi come Andrew Tate – nominato di sfuggita – hanno sui giovani maschi anglofoni e non solo. Non è una serie tematica, non dà spiegazioni e non si addentra. Mostra invece, con grande efficacia, l’incredulità e lo smarrimento adulti di fronte all’esistenza di tutto questo, di fronte a una grammatica e a un linguaggio indecifrabili di relazioni umane che passano per “Insta” ma passano soprattutto per una facilità e una consuetudine all’abuso, al bullismo e alla violenza, tali da lasciare impotenti. La normalità in cui “en passant”, dentro i corridoi della scuola, assistiamo agli insulti degli studenti nei confronti degli insegnanti, alla pavidità di alcuni di questi, all’incapacità di trovare la minima ragione per fare ciò che si sta facendo, è qui il punto di merito della serie. Non di certo il primo prodotto in cui si affronta la difficoltà adulta di relazionarsi con la violenza dei figli: pensiamo a Defending Jacob, poco riuscita serie di Apple TV in cui due patinati genitori in una patinata casa americana si ritrovavano immersi nel dramma di sostenere un figlio accusato di omicidio, con la solita contrapposizione tutta americana fra bene privato e valori collettivi (decisamente su un altro livello il modo in cui la tratta un grande del cinema mondiale come Clint Eastwood, nel sottovalutato Giurato numero 2); è il tema anche del film francese Noi e loro – il titolo originale è Jouer avec le feu, “Giocare con il fuoco” – con Vincent Lindon padre operaio che assiste angosciato alla fascistizzazione di uno dei suoi figli, un film a sua volta poco riuscito –presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 2024 – in cui tutto il dramma del padre si risolve infine in uno spiegone didascalico. In Adolescence Stephen Graham, grande attore britannico, ideatore e co-autore della serie di cui è anche protagonista nel ruolo del padre, Eddie Miller, fa un’operazione diversa, intellettualmente molto più onesta. Rinuncia a ogni spiegazione. Rinuncia alla comprensione. Rinuncia a dire, e preferisce mostrare. Questo è il senso del piano sequenza: guardare, da osservatori partecipanti, senza pretesa di capire, perché i codici per capire non ce li abbiamo.
Sono i codici di una generazione che sta accogliendo la violenza non soltanto come normale ma come necessaria. E il punto è che la violenza in questa epoca è già diventata normale. La violenza della natura e la violenza degli esseri umani. L’adolescenza è un periodo breve della vita: pochissimi anni. Come si sviluppa la mente di chi l’ha vissuta accettando la normalità della morte in solitudine, durante la pandemia da COVID? Come si sviluppa la mente di chi la sta vivendo accettando la normalità, persino la legittimità, di un genocidio coloniale che dura da 17 mesi e che non soltanto non viene contrastato da chi avrebbe i mezzi per farlo ma viene consentito, approvato, garantendo l’impunità assoluta allo Stato di Israele e a coloro che al loro interno lo stanno perseguendo? Come si sviluppa la mente di chi vive gli anni del suo sviluppo psico-fisico quando uccidere e far morire chi cerca di arrivare ai confini delle nostre terre è diventato giusto, mentre salvare chi rischia di morire è diventato criminale?
La serie non si pone queste domande, ma le suscita. Questo è il suo grande merito. Mostrando lo smarrimento adulto e il rapporto degli adolescenti con la realtà, scatena una serie di domande e riflessioni. In un clima di violenza ormai normalizzata, di politica impotente e di fatto già estinta, di guerra senza controllo, saranno inevitabilmente le giovani generazioni, quelle che in questo mondo dovranno cercare di vivere il più a lungo e meglio possibile, le prime ad attrezzarsi alla sopravvivenza nella nuova legge del più forte. La violenza è quel modo atroce per prepararsi al futuro che gli innocenti di oggi stanno cercando; fino al punto in cui innocenti non saranno più. Perché sarà un futuro di violenza estrema, e mentre noi adulti e vecchi ancora boccheggiamo nella confusione i giovanissimi l’hanno già capito, ben meglio e ben prima di chi li ha messi al mondo. La violenza anche delle donne, il bullismo delle adolescenti e la disponibilità al ricorso alle mani da parte delle ragazze – è un fenomeno l’attrice che impersona l’amica della vittima, in questo senso – è un altro elemento. La giovane assassinata non era una vittima di bullismo, era una bulla a sua volta. Il paradigma della “vittima” che è stato così centrale nella generazione precedente a questa, ovvero quella dei millennial, non è più in voga nelle ultime generazioni di giovani. Che invece si stanno predisponendo a vivere vite violente: il paradigma prevalente torna a essere quello della forza, sopravvivere schiacciando gli altri. Loro lo hanno imparato per primi, e lo hanno imparato da noi, osservando le nostre vite; ma noi – noi adulti – non abbiamo ancora capito che cosa gli abbiamo insegnato.

Giornalista, fondatrice di Kritica.it. Puoi leggere suoi articoli e saggi su MicroMega, Gli Stati Generali, Africa ExPress. Ha vinto diversi premi fra cui il Premio Luchetta – Stampa italiana nel 2022.
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