Nel campo di al Yarmok nel nord di Gaza – da non confondere con l’omonimo campo, molto più grande, nei pressi di Damasco, dove per decenni hanno vissuto decine di migliaia di rifugiati palestinesi in Siria – fin dall’inizio dell’attacco israeliano hanno trovato riparo nelle tende centinaia di famiglie con migliaia di persone fra adulti e bambini, è costruito sopra una discarica. Fra macerie e rifiuti, si manda avanti la vita.
Un giorno parleremo di Gaza e dei suoi campi di sfollati come i sopravvissuti del ghetto di Varsavia ci raccontarono la loro vita. Pensando a Marek Edelman, alle sue parole struggenti, alle sue lotte, posando lo sguardo sui bambini del campo di, le loro espressioni buffe e concentrate, ritratte dal talentuoso Hamed Sbeata, riconosceremo che la vita emergeva da ogni granello di sabbia, ogni capello, ogni passo. E sapremo che eravamo vivi, anche se oggi non ci sentiamo tali. Eravamo vivi, perché i palestinesi vivevano.
Le bambine e i bambini di Palestina, continuando a giocare, a lavorare, a correre, a inventare, a parlottare, a volersi bene anche fra le macerie, resistendo dopo 17 mesi di nuova Nakba, dopo 50mila morti, dopo che l’80% degli edifici è andato distrutto, continuando a resistere facevano sì che rimanessimo vivi anche noi. Noi che non siamo stati in grado di fare altro se non guardare, da fermi; noi inermi, noi spenti. Osservate i loro occhi, i loro movimenti. Non li salveremo. Saranno loro, infine, a salvare noi.

Ho 23 anni e sono di Gaza. Regista e direttore di fotografia, ho lavorato a lungo come media producer per numerosi canali TV e agenzie. Non mi sarei mai aspettato di diventare un fotografo di guerra. Mi sono avventurato nel periodo difficile che stiamo attraversando per raccontare ciò che le persone vivono qui, e produrre storie e documentari sulla realtà umana di Gaza.
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