In occasione del Milazzo Film Festival Attorstudio, che si è tenuto nella cittadina siciliana sul golfo omonimo dal 6 al 9 marzo scorsi, abbiamo avuto occasione di parlare con numerosi attori e attrici premiati dalla rassegna, incentrata sul mestiere dell’attore. Fra i più apprezzati dal pubblico particolarmente di giovani e studenti c’è stato l’attore e regista Sergio Rubini. Kritica ha potuto scambiare con lui alcune battute in questa video intervista:

Per chi preferisce la lettura, ecco qui l’intervista in forma scritta:

Il mondo del cinema è inquieto in questi mesi in seguito alla riforma del tax credit voluta dall’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano e confermata dall’attuale ministro Alessandro Giuli. Che idea si è fatto della situazione?

Il nostro comparto è un momento di grande sofferenza. Non sono stati ancora definiti i finanziamenti del “Tax Credit”– il controverso meccanismo, rivisto dall’ex ministro Gennaro Sangiuliano, attraverso il quale lo Stato riconosce crediti d’imposta ai produttori di opere cinematografiche, ndr –. Si tratta di una contraddizione, siamo economicamente fermi in un momento in cui creativamente c’è una specie di risveglio del cinema italiano. Certamente ritengo che nel passato sia stato fatto qualcosa di sbagliato: sono stati dati troppi soldi al comparto culturale in maniera un po’ scriteriata, perché poi i musei sono rimasti chiusi perché non ci sono i custodi, e anche nel cinema è stato erogato tantissimo denaro, soprattutto a beneficio di società straniere; il che, in un mercato globale, è assolutamente comprensibile, però mi avrebbe fatto piacere se poi fosse stato premiato chi non ha venduto. Molte delle nostre società che producono format televisivi sono veramente simbolo di italianità, ma in realtà sono di proprietà straniere. Perciò che questo Tax Credit venga erogato agli stranieri fa un po’ tristezza: è giusto, come dicevo prima, in un mercato globale, ma andrebbero maggiormente incentivati i film che non sono da botteghino. Detto questo, se il criterio per cui oggi c’è questo fermo è che si vuole mettere a registro un meccanismo che non era perfetto, un po’ come è stato per il super bonus edilizio perché, come capita in Italia quando ci sono queste  agevolazioni, c’è sempre il furbo che ne approfitta, allora evviva perché vuol dire che stanno studiando. Non studiassero troppo, perché altrimenti dall’altra parte il comparto muore completamente. Se invece c’è una sorta di vendetta perché il cinema viene ritenuto diciamo appannaggio di una certa area politica e quindi è in atto una vendetta, così, senza che ci sia dietro invece null’altro che la vendetta, allora è una cosa assolutamente sbagliata. Non si può far morire un comparto che comunque è sempre stato rappresentativo del nostro paese perennemente in crisi, il cinema italiano è sempre stato in crisi, ma si è fatto sempre spazio comunque nel mondo e quindi non lo si può far morire, non lo si può far soffrire. Invece lo si può far crescere e pertanto voglio dire: lavorassero per farlo crescere, per perfezionare questi meccanismi che servono a finanziarlo.

Gli attori come soggetto hanno una presenza politica? Riuscite a incidere in qualche modo collettivamente su questa riflessione o oppure no?

Lei tocca un tasto, per quanto mi riguarda, dolente. Ci sono attori, miei autorevolissimi colleghi, che ci hanno messo, come si dice, la faccia, e li ammiro molto per questo: penso a Elio Germano, a Valerio Mastandrea, che hanno preso diciamo proprio frontalmente la questione. Li ammiro molto. Trovo drammatico, invece, che i registi non l’abbiano fatto. Prima anche il nostro grande cinema vantava la presenza di autori che si battevano a mani nude non solo per i problemi del cinema, ma per i problemi della nostra società, del nostro Paese. Purtroppo oggi questo non accade, non sta accadendo. È chiaro che noi autori, noi registi, lavoriamo con i soldi pubblici e quindi diciamo c’è un po’ di paura a esporsi, perché c’è paura di non avere accesso ai finanziamenti. C’è un’autocensura, che è legittima, che è umana, però forse se tutti quanti comprendessero che unendoci non saremo vittima di di ritorsioni, si riuscirebbe a creare una voce comune, gli autori e registi insieme agli attori, agli sceneggiatori, e fare quello che in America per esempio è stato fatto per l’Intelligenza Artificiale. Noi dovremmo anche cavalcare temi più alti, tipo appunto quello dell’intelligenza artificiale, che mina nel profondo la nostra vita; invece non riusciamo nemmeno a dar voce a questo. Poi ci sono i produttori, molti produttori oggi tacciono perché sono gli stessi che hanno venduto alle società straniere, per cui se vanno a battere i pugni sul tavolo del governo uno risponde: ok, ma tu chi rappresenti? Rappresenti la Francia in questo momento? Quindi molti produttori tacciono, i registi tacciono, qualche attore diciamo si fa vivo, ma non sono certamente sufficienti a farsi sentire con l’autorevolezza di cui in questo momento ci sarebbe bisogno.

In una sola battuta, secondo lei c’è un rischio di spoliticizzazione del cinema?

C’è un rischio di spoliticizzazione del Paese,  e quindi penso che che questo si rifletta sul cinema. È chiaro che, se il nostro ambiente rappresenta, diciamo, un presidio intellettuale, questa penuria di politicizzazione come dice lei, di politica, dovrebbe essere meno perspicua di quanto non sia nel resto del Paese, nelle province; però purtroppo avviene. Quindi sì, inerisce anche il cinema, perché quando manca la politica vuol dire che manca la società civile. Poi ci sono film che magari possono incontrare il favore del pubblico, ma il nostro ruolo non è organico, in questo momento, nel Paese. Prima avevamo un cinema che faceva parte del Paese, faceva parte del nostro DNA. Oggi lo è molto di più il Festival di Sanremo, che non il cinema. Il Festival di Sanremo oggi fa parte del DNA del nostro paese, il cinema non lo più. Sporadicamente ci sono film che ci rappresentano, ma il cinema italiano non trova più posto nella struttura culturale d’Italia. Quando ho cominciato a farlo io, invece, questo ruolo si era ripristinato. Con gli anni cosiddetti di piombo si era creata una distanza tra le sale e il pubblico, lo spettatore spesso diceva “non vado a vedere i film italiani”. Poi, verso la fine degli anni ’80, con Nanni Moretti che è stato un po’ il decano di questo nuovo cinema italiano, si è ripristinato di nuovo un rapporto fiduciario tra gli spettatori e il cinema. Che ora si è di nuovo interrotto. Adesso ci sono, sporadicamente, film che funzionano – pensiamo al record di incassi di C’è ancora domani, ndr – ma per quanto riguarda il cinema nel suo complesso, quando si dice “vogliamo salvare le sale” sono parole che servono a poco. Per salvare le sale il cinema deve tornare ad essere una consuetudine, per essere una consuetudine deve far parte della nostra storia. Non parlo del cinema americano, ma del cinema italiano, il cinema nostrano. Non si può pretendere che sia una consuetudine qualcosa che ci è alieno.

CREDITI FOTO: © Kritica

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