In occasione dell’8 marzo abbiamo proposto ai nostri lettori una analisi critica di un documento, scritto da un gruppo di femministe e pubblicato sui canali social dell’Unione donne in Italia (UDI), dell’associazione Arcilesbica e altri, che ha suscitato prese di posizione nette, di rifiuto e respingimento di qualsiasi forma di dibattito.
Una reazione, come abbiamo cercato di spiegare nella prima parte della nostra risposta (trovate il link qui sopra) in gran parte inevitabile giacché quel documento, sebbene si presentasse sotto forma di lettera aperta, contiene in realtà una serie di asserzioni talmente apodittiche da non invitare nessuno a confrontarsi. Abbiamo deciso di provarci lo stesso, perché ci sta molto a cuore il movimento delle donne, più che il femminismo strettamente inteso, al singolare o al plurale che lo si voglia declinare, e perché la missione di Kritica è quella di provare a instillare i principi del pensiero critico e praticare la “fisica dei punti di vista” anche e soprattutto quando le condizioni si fanno più difficili. Se avessimo voluto una vita facile, avremmo fatto altro nella vita. Proseguiamo dunque l’analisi della lettera nella sua integrità, paragrafo per paragrafo. Così come per la prima parte, ci sono una serie di asserzioni con le quali ci troviamo decisamente più d’accordo che non altre. Ma, di nuovo, riteniamo che siano state proposte in modo apodittico e sostanzialmente spoliticizzato.
Prostituzione, non “lavoro sessuale”
Le donne non sono vittime da salvare, tuttavia il dominio maschile esiste e prevede l’avere accesso al corpo delle donne, anche tramite la prostituzione. Nel tardo capitalismo c’è un intreccio perfeto tra mercato e patriarcato. Il primo mantiene le donne povere e precarie rendendole prostituibili, il secondo tramanda attraverso la prostituzione le norme di genere che fondano la virilità sull’uso sessuale delle donne. L’industria globale del sesso è un business dagli immani profili che riduce le donne a oggetto di consumo per gli uomini. Per questo la prostituzione non può essere chiamata “lavoro”. Farlo nasconde la violenza, l’altissima mortalità, la discriminazione e il razzismo estremi che comporta. La prostituzione in Italia non è illegale, lo è il suo sfruttamento. Regolamentarla significherebbe assolvere i magnaccia e i trafficanti, legalizzandone gli abusi sulle donne intersezionalmente più vulnerabili: quelle provenienti da paesi poveri, da guerre, da violenze in famiglia, da disoccupazione. Opporsi alla regolamentazione non significa essere contro le donne, ma contro gli utilizzatori e i mediatori. Prostituzione e pornografia sono per gli uomini un’autorizzazione ad abusare di tute noi: vogliamo l’incolumità delle donne, anche in prostituzione, e percorsi di fuoriuscita per chi lo vuole.
La posizione politica sulla prostituzione espressa in questo paragrafo ci trova completamente concorde. In tanti anni chi scrive ha avuto modo di occuparsi del tema, realizzando numerosi articoli per diverse testate, e in tutti potrete trovare una comprensione del fenomeno della prostituzione che è molto vicina a quanto si dice in questo paragrafo. Tuttavia, c’è un punto, che è il punto fondamentale che attraversa un po’ tutta la lettera aperta e che in generale ha trasformato il femminismo in una diatriba fra sette, come dicevamo anche nella precedente puntata: non si può fare di questo tema una questione di linguaggio. Non ha alcun senso, e indebolisce i propri argomenti, diventare prescrittive sull’uso del linguaggio giusto o sbagliato. Più che legittimo continuare a rivendicare il diritto di chiamarla prostituzione, ma non ha alcun senso stigmatizzare l’utilizzo di altri termini. Ci sono tante giovani donne che, cresciute allieve di nuove scuole femministe che adoperano linguaggi diversi per indicare i fenomeni, hanno tuttavia ben chiara la dimensione oppressiva del “sesso come business”, come si dice nel documento, ma lo chiamano lavoro perché al termine “lavoro” non attribuiscono una connotazione positiva, come avveniva nelle generazioni precedenti. Nel mondo capitalistico di cui si parla nel paragrafo stesso tutto il lavoro è diventato mercato e mercato di sé. Non esiste più una reale differenza percepita fra la prostituzione e il resto del lavoro non solo perché alcune correnti del femminismo o alcuni collettivi di femministe hanno deciso di lanciarsi direttamente nel business del lavoro sessuale, magari pretendendo di nobilitarlo facendone un pinkwashing o un feministwashing, ma perché è reale, è fattuale, che ogni tipo di mestiere oggi si svolge attraverso alcuni criteri in comune con quelli prostituenti, prima di tutto quelli del mettersi in vetrina, come nei quartieri a luci rosse, di vendere sé stessi in un mercato in cui non c’è più il salario, c’è solo il compenso, e quelli del fare “marchette”, cioè prodursi in lavori degradanti e umilianti per la dignità della persona, non ultimo perché talmente tanto mal pagati e disprezzati da costituire una forma di prostituzione. Perciò, se tante donne specialmente più giovani adoperano la locuzione “sex work” non è necessariamente perché nobilitano il sesso come lavoro ma perché considerano, e non si può dare loro torto, tutto il lavoro come una forma di prostituzione sempre più spiccata.
Senza un discorso di classe, cioè politico, che non si limita a nominare il capitalismo ma entra nei suoi gangli e dunque prevede un posizionamento radicale e specifico sulle vicende del mondo in generale, senza separare le donne dalle classi oppresse tutte, una analisi più che corretta della radice patriarcale e della natura capitalistica e padronale della prostituzione rischia di scadere in una bacchettata, nella pretesa che correggere il linguaggio sia un modo per cambiare la realtà. Siamo in profondo disaccordo con questo assunto. Correggere il linguaggio serve a cambiare la comunicazione, non la realtà. Se il fine della comunicazione è – e dovrebbe essere – comprendersi fra donne, fra femministe e fra oppresse, bisogna adoperare il linguaggio con questo scopo, e dunque in modo elastico e politicamente intelligente, non bacchettone o dottrinario.
GPA (gravidanza per altri)
Nei contratti di GPA nulla è gratuito. Trasformare la gravidanza in lavoro significa ridurre la nascita a merce, regolata da contratti imposti dai committenti. Le madri dette “portatrici” devono dissociarsi dalla gravidanza, cioè da sé stesse. Seguite da psicologi, imparano a reprimere ogni legame con il nascituro. L’impianto di ovociti estranei e l’espianto di ovociti comportano rischi per la salute fisica e psicologica delle donne coinvolte. Le difficoltà nel diventare genitori non giustificano il familismo amorale né l’uso del corpo femminile come
strumento. Gli omosessuali, come avveniva in anni passati, possono accordarsi con donne solidali che ricorrerrano all’autoinseminazione o chiedere l’apertura delle adozioni, evitando il mercato riproduttivo. La GPA è un business con selezione delle gestanti, tariffari, aborti imposti e impedimento dell’allattamento. Ha analogie con la schiavitù riproduttiva e spesso sfrutta donne vulnerabili. Discutere di GPA non è odio, mentre vietarne il dibattito è autoritarismo e censura.
Un modo riduttivo e di nuovo profondamente apodittico di porre un tema del quale si deve riconoscere, se si ha a cuore qualcosa di più delle proprie ragioni, la delicatezza e la contraddittorietà che cominciano dal cuore stesso del fenomeno, ovvero la maternità. La generazione di un essere umano diverso dalla madre, che non coincide con la madre e non le appartiene, così come non appartiene al padre. Se il patriarcato ha voluto stabilire precisamente un principio di proprietà paterna dal quale far derivare un ordine sociale, questo non è avvenuto mai senza una forma di coinvolgimento delle madri che è stata sempre, anche, di complicità con la propria oppressione. Non c’è desiderio materno che non faccia i conti con questa profonda contraddizione, e non c’è dunque alcuna lezione da fare sul “familismo amorale” qui richiamato completamente a sproposito, perché il regno del familismo amorale è la famiglia, tout court, anche quella non patriarcale. Dove c’è famiglia c’è il rischio del senso di possesso, le donne non ne sono mai state esenti, né quelle che ricorrono alla GPA, né quelle che non ci ricorrono e generano figli da sé.
La politica di estrema destra e fascista si è potuta appropriare di questo tema in chiave repressiva, e le femministe anti-GPA glielo hanno consentito e di questo portano la violenta responsabilità – che non si prendono e non intendono prendersi, prova ne sia che non se ne fa cenno in questo paragrafo, dipingendosi anzi per le vittime di autoritarismo che non si è; si è invece collaboratrici attive di coloro che l’autoritarismo lo stanno reinstaurando, in questo Paese – precisamente perché se si mette in discussione il solo ricorso alla GPA senza mettere in discussione il contraddittorio concetto del desiderio materno in quanto tale, non solo quello paterno ma quello materno, e di come esso sia attraversato da millenni di assorbimento della cultura patriarcale nei desideri, nei sogni e nelle idee di vita, è inevitabile passarsene a difendere, in automatico, la famiglia reazionaria e tradizionale, quella in cui “esistono una mamma e un papà”, proposta in quanto tale anche agli uomini gay, in un modo eccessivamente lineare. Se questa pratica del fare figli con le amiche non si è affermata nel mondo gay i motivi sono tanti, e non soltanto riconducibili alla pur presente misoginia gay. Il motivo principale è che qualsiasi nucleo familiare è un coacervo di contraddizioni, di sfruttamenti incrociati e sofferenze, in un mondo in cui il patriarcato è sistema di Stato, e non solo del privato, è cultura sociale millenaria e non c’è nessuna alternativa che finora sia stata sufficientemente convincente da sostituirlo.
Meno certezze e più onestà, intellettuale e sentimentale, su questo tema sono necessarie. Da ambo le parti, perché anche le risposte ricevute da chi è favorevole alla GPA o alla sua regolamentazione sono per lo più mistificatorie e ipocrite, e non questionano affatto il senso comune sulla maternità alla sua radice.
Omofobia e discorsi d’odio
Negli ultimi anni il termine “omofobia” è diventato onnipresente nel dibattito pubblico, rimbalzando dalle aule scolastiche alle dichiarazioni politiche, dalle proteste di piazza ai social media. Potremmo rallegrarcene, ma è una vittoria apparente. Infatti questa parola è stata usata anche per etichettare ogni dissenso verso le richieste delle comunità LGBTQ+ su questioni come la gestazione per altri o la somministrazione di bloccanti della pubertà a preadolescenti. Se la parola “omofobia” viene usata per silenziare il dissenso non è più uno strumento di liberazione, ma di controllo. In particolare, le donne critiche verso quelle rivendicazioni sono accusate di fare “discorsi d’odio”. Non è diffamazione, insulto o minaccia dire che nessun dirito passa per l’uso del corpo e delle funzioni fisiologiche altrui o lanciare l’allarme sui rischi per la salute delle donne sotoposte a gestazione per altri e per bambine e bambini trattati con i bloccanti della pubertà: non si invita a fare del male a nessuno, anzi si cerca di evitare che a qualcuno ne venga fatto. Etichettare questo come discorso “d’odio” significa voler restringere la libertà d’espressione.
Questa riflessione sull’omofobia lascia francamente sgomenti, perché rimuove completamente il contesto politico in cui questa lettera è giunta al dibattito pubblico, quello di un’assunzione al potere di una estrema destra che della lotta contro i diritti e la dignità umana delle donne e delle persone gay, lesbiche, transessuali eccetera ha fatto un baluardo. Parlare di “restrizione della libertà d’espressione” mentre la nuova amministrazione Trump ha vietato di utilizzare nei discorsi ufficiali parole come “transgender”, ha addirittura vietato l’utilizzo del nome di “Enola Gay” quando “Gay” era il suo cognome e non aveva nulla a che fare con l’orientamento sessuale, fa chiedere: siete consapevoli, care firmatarie di questa lettera aperta, che è questa la situazione al momento? La vostra lettera pare scritta da un altro Pianeta, quando si arriva a dipingersi come vittime di una situazione in cui la battaglia per il “free speech” è stata totalmente fatta propria dalla compagine di Trump, ovvero dalla massima espressione del patriarcato reazionario, per fomentare l’odio omofobo, transfobico e misogino. Il minimo che ci si aspetterebbe è, se non un’autocritica, una riflessione autocosciente sul fatto che in questo momento storico ogni divergenza sulla questione transgender andrebbe messa da parte – tanto più che avete vinto: le nuove amministrazioni di estrema destra a cominciare da quella americana hanno applicato le vostre direttive – per difendere il diritto all’esistenza e alla dignità di donne, persone gay, lesbiche, trans, queer eccetera, in quanto tutte indistintamente nel mirino dei patriarchi al potere. L’assenza assoluta di questo tipo di considerazioni nel testo non può non destare sospetto: si tratta di una intelligenza con il peggior nemico che le donne in primis si stiano ritrovando a fronteggiare da diversi decenni a questa parte, nel mondo Occidentale e non solo, perché i fondamenti reazionari dell’amministrazione Trump sono ben più retrogradi di quelli di tanti Paesi a prevalenza musulmana, tanto per fare un esempio. È proprio in virtù della priorità assoluta di scongiurare questa intelligenza che dal femminismo come movimento di liberazione dal patriarcato ci si aspetta un’altra intelligenza, quella politica ed etica, quella di capire che quando l’estrema destra colpisce le persone trans o queer non fa nessuna differenza con le donne, è un modo per colpire anche noi. E viceversa.
Libertà
Oggi si spaccia per libertà vendere il proprio corpo, vendere/donare la creatura che si mete al mondo, il disporre del proprio corpo come di un abito intercambiabile o uno strumento inanimato separato da sé e si riduce il desiderio a quello individuale che può essere soddisfato dal mercato. Ma possiamo parlare di libertà se una donna è pressata da necessità economiche? Se si mette a disposizione dei desideri altrui rinunciando al proprio? No, questo è il modello individualista proposto dalla forza manipolatrice di un capitalismo predatorio, che fa di esseri umani e desideri oggetti di consumo e condanna ciascuna alla solitudine. Invece la libertà femminile guadagnata per tutte e tutti è libertà relazionale e non si afferma in astratto e in solitudine. Non vogliamo la parità con l’uomo preso a modello e misura di valore, ma la nostra soggettività libera, in un intreccio di relazioni inevitabilmente interdipendenti.
Questo paragrafo riprende assunti già esposti in quelli precedenti e che abbiamo già questionato. Ancora una volta, è una riflessione facile, proclamatoria, che manca completamente di spirito autocosciente e autocritico su quanto questa stessa concezione di libertà abbia influenzato i rapporti fra donne e femministe, insinuandosi anche in coloro che l’hanno verbalmente denunciata. Comprendere se i desideri sono propri o altrui non ha niente di lineare, tanto è così che tutta l’autocoscienza femminista si basa su questa indagine, tanto liberatoria quanto dolorosa; e non è affatto proclamando una generica “libertà relazionale” o “soggettività libera” che queste ultime si realizzano. Il femminismo era il motore di un movimento che coinvolgeva in Italia milioni di donne, se non decine di milioni di donne, in un processo di liberazione che proprio quando è iniziata una certa retorica sulla libertà si è arenato, perché le femministe stesse si sono impantanate nella pratica di questa libertà, abbracciando stili di vita che senza arrivare alla prostituzione hanno però favorito e fomentato quello stesso sistema che prevede poi il ruolo di prostitute per le donne delle classi più basse, o per quelle più isolate, o per le più giovani: il sistema borghese, con il suo prestigismo, le sue gerarchie sociali, la sua competitività, anche fra donne.
Solidali ma differenti
In conclusione, la nostra intenzione è sollevare interrogativi su una visione dell’inclusione e dei diritti che rischia di perpetuare sfruttamento e subordinazione delle donne a solo vantaggio del biomercato neoliberista. Consideriamo la mercificazione della vita come l’espressione più recente del patriarcato che vogliamo eliminare. Come femministe, crediamo che la lotta per la libertà delle donne passi prima di tutto dal riconoscimento della nostra differenza: non siamo né quello che gli uomini dicono di noi, né copie conformi degli uomini stessi. Il femminismo da sempre sfida i ruoli imposti dal patriarcato. Ci opponiamo alla guerra e rifiutiamo l’aumento delle spese militari, vogliamo un pianeta vivo e sano, in cui l’umanità possa vivere senza stenti. Vogliamo un mondo senza razzismo e senza muri. Vogliamo lavori dignitosi e paghe eque, per produrre attività e cose utili e non distruttive, nocive o fonte di inutili sprechi. Le nostre alleanze, la nostra solidarietà verso comunità oppresse è solidarietà di donne che sanno la forza e la durata delle loro lotte, nonostante la cancellazione tentata dalla storia ufficiale. Nessuno può chiederci un’alleanza che ci obblighi a dimenticarci di noi. Le donne sono il soggetto del femminismo. E senza femminismo non si può porre fine alla strage di donne, a tutte le violenze e mutilazioni, alla privazione dell’istruzione delle ragazze e al furto delle proprietà intellettuali, alle paghe ridotte. Il femminismo ci restituisce a noi stesse. Solo noi possiamo costruire la nostra storia e la nostra libertà. Mettendo al centro le relazioni politiche tra donne intendiamo trasformare tutta la civiltà, per arrivare a un mondo radicalmente diverso e migliore per tutte e tutti e non solo un po’ meno ingiusto di quello attuale.
Se l’intenzione era sollevare interrogativi, come mai non c’è neanche un punto di domanda in tutto il lunghissimo documento? Come mai non si sostanzia mai neanche un dubbio, un accenno di autocritica, in nessun passaggio? Queste conclusioni sono un lungo elenco di asserzioni talmente generiche, talmente scollate anche dalle questioni poste nei punti precedenti, che tra le righe l’unica cosa che ribadiscono è che queste femministe non sono disposte a nessuna convergenza con il movimento LGBTQ+, che non accetteranno le donne transessuali nei loro spazi, che rivendicano il femminismo come movimento delle donne, definite per il loro sesso biologico e non per le condizioni politiche.
Si può davvero pensare di battersi “per un mondo radicalmente diverso e migliore per tutti e tutte” separandosi dalle lotte di altri? Il femminismo non è una panacea, non lo è mai stato, per nessuno e neanche per le donne stesse. Il femminismo è un frutto della storia, di quella del pensiero e di quella dei movimenti sociali, con i suoi momenti alti e quelli molto bassi. In questo momento storico, il femminismo occidentale vive la sua peggiore traiettoria: eccettuata la lotta contro la violenza maschile, alla quale in questo documento non si fa cenno – a dimostrazione del fatto che è un documento che vuole segnare solo differenze e distanze con altri settori di femminismo e mai si pone una volta la possibilità delle convergenze – per il resto il femminismo in Occidente non è più capace di rappresentare un punto di riferimento per le donne a livello di massa. Non è più capace di guidare verso un orizzonte di liberazione, perché è profondamente invischiato in quel sistema neoliberistico, capitalistico e autoritario dal quale pure qui si prendono genericamente, apoditticamente le distanze; ed è invischiato in primo luogo sul piano delle relazioni fra donne, tutt’altro che affrancate dalla competitività, dalla lotta per il potere, dalle nevrosi, dagli odi incrociati e dalle guerre settarie e dottrinarie. Sono la ragione stessa per cui questa lettera è stata scritta e il motivo per cui è così apodittica: il dibattito fra correnti femministe e dottrine femministe, ma anche fra donne semplicemente, ormai da tempo si è fatto ruggine, in tutti i sensi: per levarla bisogna scartare in alto, con l’umiltà di riconoscere realmente a che punto si trova la traiettoria del femminismo nel presente, in questo Paese. La critica e l’autocritica, pur non rappresentando a loro volta alcuna panacea, sono quanto mai indispensabili per riprendere con slancio il percorso delle donne verso la liberazione.
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