All’inizio di agosto 2025, quattro attivisti ambientalisti curdi hanno perso la vita mentre cercavano di domare un incendio boschivo sulle montagne di Abidar, vicino a Sanandaj, nella provincia iraniana del Kurdistan. Non sono stati i primi a morire in questo modo. Negli ultimi anni, almeno 20 difensori dell’ambiente curdi sono stati uccisi in circostanze simili nelle foreste dello Zagros. Queste morti vengono spesso riportate come incidenti, come se fossero sfortune isolate. In realtà, fanno parte di una storia più ampia di distruzione ambientale, emarginazione politica e sfruttamento economico.
Queste morti rivelano anche una verità fondamentale: la sicurezza ambientale non può essere affidata a uno Stato le cui priorità sono determinate dal profitto e dalla repressione. Solo il controllo democratico della terra, dell’acqua e delle foreste da parte delle persone che da esse dipendono può prevenire tali perdite.
Le crisi ambientali dell’Iran non sono solo il risultato di pericoli naturali o di una cattiva gestione locale. Sono profondamente legate alla struttura del potere politico, alle priorità della politica economica e al trattamento delle regioni emarginate come il Kurdistan. In questo contesto, difendere l’ambiente diventa un atto politico. La lotta per proteggere le foreste, i fiumi e la terra è inseparabile dalla lotta per la giustizia, l’uguaglianza e la sopravvivenza.
Incendi e cause umane
Gli incendi boschivi nella regione del Kurdistan iraniano sono causati in modo schiacciante dall’attività umana. Le organizzazioni ambientaliste locali stimano che oltre il 90% di questi incendi sia legato a fattori umani, mentre le cause naturali, come i fulmini, rappresentano meno del 5%. A prima vista, questa statistica potrebbe suggerire una negligenza da parte degli individui. Ma la realtà è più strutturale e sistemica.
La “causa umana” risiede spesso nei sistemi politici ed economici che determinano l’uso del suolo e la gestione delle risorse. L’espansione agricola non regolamentata, l’accaparramento speculativo dei terreni e i progetti di sviluppo con scarsa supervisione ecologica creano paesaggi altamente infiammabili. L’edilizia senza valutazione ambientale aumenta la vulnerabilità, mentre le agenzie di protezione delle foreste sono sottofinanziate e messe da parte.
Per fermare gli incendi, non è sufficiente regolamentare l’agricoltura dall’alto. La terra deve essere gestita da coloro che la lavorano, non dalle aziende o dalle élite politiche il cui interesse risiede nel guadagno a breve termine.
Quando scoppiano gli incendi, gli attivisti locali spesso reagiscono più rapidamente delle autorità statali, rischiando la vita per proteggere i loro ecosistemi. Tuttavia, questi stessi attivisti subiscono vessazioni, arresti o persino violenze da parte delle forze di sicurezza. Questa contraddizione evidenzia un problema più profondo: il ruolo dello Stato nella distruzione dell’ambiente non è solo di assenza, ma anche di complicità attiva in politiche che degradano il territorio.
Assenza dello Stato o complicità dello Stato?
Quando si discute delle crisi ambientali in Iran, la questione viene spesso inquadrata come un problema di negligenza dello Stato, di un governo che non agisce. Ma nel Kurdistan iraniano, il quadro suggerisce qualcosa di più complesso: lo Stato non è semplicemente assente, ma spesso partecipe della distruzione.
Lo Stato iraniano opera non solo come autorità politica, ma anche come attore economico. In molti casi, si comporta come quello che gli studiosi chiamano un sistema di capitalismo politico, in cui il potere economico è concentrato in istituzioni direttamente collegate alle élite politiche. In questo modello, il profitto non è generato dalle industrie produttive, ma dal controllo delle risorse, dall’estrazione e dall’accesso monopolistico ai beni pubblici.
Un concetto chiave per comprendere questo sistema è l’anfal, ovvero l’appropriazione della ricchezza naturale senza proprietà privata. In pratica, ciò significa che le foreste, i fiumi e altri beni ecologici possono essere trattati come proprietà da sfruttare da parte di entità legate allo Stato senza alcuna responsabilità. Ampi settori dell’economia iraniana sono controllati da “istituzioni parallele” come la Guardia Rivoluzionaria, che supervisiona vasti progetti infrastrutturali e di sfruttamento delle risorse. Questi organismi non rispondono né alle comunità locali né a organismi di controllo indipendenti, e le loro attività causano spesso gravi danni ambientali.
Un’alternativa sarebbe quella di sottrarre questi beni comuni al controllo dello Stato e dell’esercito e di affidarli a una gestione collettiva, in cui le assemblee locali, gli operatori ambientali e gli scienziati condividano il potere decisionale sull’utilizzo delle risorse.
Capitalismo politico e distruzione ambientale
Il capitalismo politico in Iran ha lasciato un segno visibile sugli ecosistemi del Paese. I grandi progetti infrastrutturali, spesso presentati come simboli di sviluppo, sono diventati motori del collasso ecologico. La costruzione di grandi dighe, la deviazione dei fiumi e i progetti di trasferimento dell’acqua sono realizzati da istituzioni legate all’élite politica, con una valutazione ambientale minima o nulla.
Il braccio ingegneristico dell’IRGC, ad esempio, ha costruito decine di grandi dighe in tutto il Paese, anche in aree ecologicamente fragili come il Kurdistan. Questi progetti hanno interrotto il flusso dei fiumi, distrutto habitat e contribuito alla deforestazione. Le stesse istituzioni hanno supervisionato progetti di trasferimento dell’acqua, come quello che ha portato l’acqua dalla regione di Piranshahr al lago Urmia, che hanno ulteriormente stressato i sistemi idrici locali invece di ripristinarli.
Per la classe politica, queste iniziative generano entrate, ampliano il controllo sulle risorse strategiche e rafforzano le reti clientelari. Per le comunità locali, comportano l’erosione del suolo, l’esaurimento delle falde acquifere e la perdita di biodiversità. Il degrado ambientale non è una conseguenza involontaria, ma un costo accettato di un modello di sviluppo basato sull’estrazione delle risorse a beneficio del centro. Questo modello è particolarmente dannoso nelle province periferiche, dove il danno ecologico si combina con un sottosviluppo economico cronico.
Un’alternativa socialista smantellerebbe il monopolio delle aziende legate all’esercito e reindirizzerebbe le risorse verso progetti ecologici guidati dalla comunità: ripristino dei fiumi, riforestazione dei terreni e creazione di posti di lavoro locali dignitosi senza distruggere l’ambiente.
La dottrina dell’autosufficienza e i suoi costi ecologici
Fin dalla sua fondazione, la Repubblica Islamica ha considerato l'”autosufficienza” come un obiettivo fondamentale di sviluppo. La politica ufficiale collega l’indipendenza nazionale alla capacità di produrre internamente tutti i beni essenziali, dall’agricoltura all’industria pesante. Sulla carta, questa può sembrare una strategia di resilienza. In pratica, spesso ha significato espandere la produzione senza tener conto dei limiti ecologici, soprattutto in ambienti già fragili.
L’agricoltura nelle province periferiche dell’Iran è stata riorganizzata per servire questi obiettivi nazionali. Le colture ad alto consumo idrico sono promosse anche in zone semi-aride, ignorando le condizioni ecologiche locali. Nel bacino del lago Urmia, ad esempio, vaste aree di pascoli sono state convertite in terreni agricoli, che richiedono un’irrigazione massiccia. Il risultato è stato un grave sfruttamento eccessivo delle falde acquifere, il prosciugamento dei fiumi e il quasi collasso di uno dei laghi più grandi della regione.
Questo approccio è ulteriormente compromesso dall’inefficienza. I dati ufficiali mostrano che circa il 30% della produzione agricola viene sprecato, il che significa che grandi quantità di acqua e sostanze nutritive del suolo vengono perse senza alcun beneficio pubblico. La spinta all’autosufficienza ha anche facilitato la mercificazione della natura, consentendo ad attori privati, spesso con legami con lo Stato, di trarre profitto dalla vendita delle risorse ambientali. Per regioni come il Kurdistan, il costo non è solo il danno ecologico, ma anche l’erosione dei mezzi di sussistenza tradizionali che dipendono da un ambiente sano.
Un’economia equa romperebbe con la logica dell’estrazione per il capitale centralizzato a Teheran e creerebbe invece reti di produzione e scambio controllate dai lavoratori e dalle comunità, garantendo che l’autosufficienza significhi sufficienza condivisa, non esaurimento locale.
Colonialismo interno e sfruttamento ecologico
La crisi ambientale in Kurdistan non può essere separata dal suo status politico all’interno dell’Iran. La regione fa parte di quello che gli studiosi descrivono come colonialismo interno, un sistema in cui alcuni territori e comunità sono politicamente emarginati, economicamente sottosviluppati e sfruttati ecologicamente a vantaggio del centro dominante.
In Iran, questa dinamica segue spesso linee etniche e settarie. Il Kurdistan, l’Ilam, il Kermanshah e l’Azerbaigian occidentale, in particolare, sono tra le regioni con il più basso livello di sviluppo industriale e reddito, eppure forniscono materie prime, manodopera e risorse naturali alle province centrali più ricche. I dati delle agenzie statistiche del regime mostrano che i luoghi di lavoro industriali che impiegano dieci o più persone sono concentrati nelle regioni centrali, mentre le periferie rimangono zone di estrazione.
Questo squilibrio significa che il danno ambientale in Kurdistan favorisce lo sviluppo altrove. La deforestazione, il pascolo eccessivo incoraggiato dalle politiche centrali e le pratiche agricole non sostenibili sono imposti senza una significativa partecipazione locale. In questo processo, la terra e l’acqua vengono degradate, la biodiversità diminuisce e le comunità locali perdono il controllo sulle risorse da cui dipendono da generazioni.
Per molti in Kurdistan, lo sfruttamento ambientale non è solo una questione ecologica, ma parte di un più ampio schema di esclusione politica e cancellazione culturale. La protezione della terra diventa inseparabile dalla difesa della comunità stessa.
Il colonialismo interno in Kurdistan non è solo culturale e politico, ma anche ecologico. Qualsiasi percorso verso la giustizia ambientale deve includere il diritto delle comunità curde di controllare la loro terra e le loro risorse, spezzando la catena di estrazione a beneficio del capitale.
Gli attivisti della Chia Environmental Association, un gruppo indipendente del Kurdistan, sono ripresi mentre spengono l’incendio con strumenti semplici e senza alcun sostegno da parte del governo.
L’ambientalismo come resistenza politica
In Kurdistan, l’attivismo ambientale raramente è una causa a tema unico. Opera all’intersezione tra difesa ecologica, sopravvivenza della comunità e diritti politici. Proteggere le foreste, i fiumi e i terreni agricoli è anche un modo per proteggere i mezzi di sussistenza, le tradizioni culturali e la possibilità di un futuro nella regione.
Poiché l’organizzazione politica formale è fortemente limitata, il lavoro ambientale diventa spesso uno dei pochi spazi disponibili per l’azione collettiva. Gli attivisti si impegnano nella mobilitazione della comunità, in campagne di sensibilizzazione e in interventi diretti durante crisi ambientali come gli incendi boschivi. Queste attività spesso si scontrano con le stesse strutture statali responsabili del danno ecologico, trasformando la difesa dell’ambiente in una forma di resistenza politica.
Questa resistenza è anche intellettuale. In molte comunità curde, c’è un crescente sforzo per sfidare la visione dominante della natura come mera risorsa per l’uso umano. Al contrario, attivisti ed educatori promuovono una comprensione dell’ambiente come parte di un sistema di vita condiviso, in cui il danno alla terra è inteso come danno alle persone. In questa ottica, la giustizia ambientale non è separata dalle lotte contro la discriminazione etnica, la disuguaglianza economica o la repressione politica, ma è profondamente interconnessa con esse.
La crisi ambientale nella regione del Kurdistan iraniano non è il risultato di una cattiva gestione isolata o di incidenti sfortunati. È radicata in un’economia politica che privilegia l’estrazione delle risorse e lo sviluppo centralizzato rispetto alla sostenibilità ecologica e al benessere locale. Le politiche guidate dal capitalismo politico, dalla dottrina dell’autosufficienza e da un colonialismo interno e si sono combinate per degradare la terra, l’acqua e le foreste, aggravando al contempo le disuguaglianze.
La difesa delle foreste e dei fiumi è inseparabile dalla difesa dei lavoratori, dei contadini e delle donne contro la repressione dello Stato. La creazione di consigli popolari che uniscano queste lotte può trasformare l’attivismo ambientale in un movimento più ampio per l’emancipazione sociale.
Per il popolo del Kurdistan, la difesa dell’ambiente è indissociabile dalla difesa dei propri diritti di comunità emarginata. È una lotta che collega la salute ecologica alla giustizia sociale, riconoscendo che la sopravvivenza dipende da entrambe. Gli sforzi per ripristinare le foreste o proteggere l’acqua non possono avere successo senza affrontare i sistemi che causano danni ambientali.
A livello globale, questo caso ci sfida a pensare oltre le definizioni ristrette di ambientalismo. Richiede solidarietà tra i movimenti ecologici e le lotte contro l’oppressione razziale, etnica ed economica. La giustizia ambientale, in questo contesto, significa non solo riparare gli ecosistemi danneggiati, ma anche smantellare le strutture che permettono il persistere di tali danni. In Kurdistan, come in molti altri luoghi, la lotta per un pianeta vivibile è anche la lotta per la libertà politica e l’uguaglianza.
L’articolo è stato originariamente pubblicato su Fire Next Time. Traduzione a cura della redazione.
CREDITI FOTO: © Fire Next Time

Scrittore e giornalista indipendente, è un rifugiato politico ad Atene, in Grecia. Scrive regolarmente di Iran, Medio Oriente, violenza ai confini e condizioni dei rifugiati in Grecia e in Europa.