Qualche tempo fa, ero nel solito supermercato dove faccio abitualmente la spesa. Quando sono arrivato allo scaffale del caffè, mi è preso un mezzo infarto. Non credevo ai miei occhi mentre constatavo un aumento del prezzo semplicemente spaventoso. Il pacchetto da 250 grammi della marca che compro abitualmente era passato dai 4/4,50 euro a 7 euro. E così, proporzionalmente tutti gli altri. Aumenti nell’ordine del 40% per un bene di consumo diffusissimo.
Quello che viene definito “carrello della spesa” subisce aumenti da almeno tre anni e ne conosciamo tutti la causa principale: l’aggressione russa all’Ucraina, le sanzioni contro Mosca, lo stop all’acquisto del gas russo e la necessità di approvvigionamenti da altri e più costosi produttori, con il conseguente aumento dei costi energetici (riscontrabile nelle nostre bollette di luce e gas) e di quelli del trasporto di ogni merce. Eppure, il prezzo del caffè è schizzato in alto molto più degli altri e in ritardo rispetto agli altri. Perché? Un’idea me la sono fatta quasi subito, ma ho impiegato un po’ di tempo a cercare riscontri. Ora, ho le idee più chiare: la colpa è della crisi climatica e di Israele.
Clima
Il cambiamento climatico e la siccità stanno producendo un preoccupante calo nella coltivazione e produzione del caffè, cosa che determina un aumento dei prezzi sia all’ingrosso sia al dettaglio (oltre all’immiserimento di un bel po’ di lavoratori, ma tanto quelli sono abituati a passarsela male e a noi occidentali che ci frega se qualche bracciante con la pelle scura ci lascia le penne, in Brasile o nell’Agro Pontino?).
L’altra causa dell’aumento stellare del mio pacchetto di caffè si chiama Israele. Prima di pensare che io sia impazzito o mi sia ammalato di antisemitismo (come tutti quelli che trovano disdicevole il genocidio dei palestinesi e lo chiamano con il suo nome), leggete le prossime righe.
Israele e il Mar Rosso
I maggiori produttori di caffè sono Brasile e Colombia in America Latina e Vietnam e Indonesia nel Sud-Est Asiatico. Per arrivare sullo scaffale del mio supermercato, quello che diventerà il contenuto del mio solito pacchetto deve fare un lungo viaggio, e indovinate un po’ dove devono passare le navi che lo trasportano? Proprio nel Canale di Suez, al quale le navi arrivano dopo essere entrate nel Mar Rosso attraversando lo Stretto di Bab Al Mandab. Insomma, il mio pacchetto di caffè deve passare ad un tiro di schioppo dalla costa dello Yemen e, da qualche tempo, la nave che lo trasporta deve schivare i missili che da quella costa partono. E perché quei missili se la prendono proprio con il mio innocente pacchetto di caffè?
In realtà, il mio pacchetto di caffè non ha nessuna colpa, anzi, è una vittima come me e come altri molto più di me. Quelli che sono molto (ma molto!) più vittime di me e degli altri consumatori si chiamano palestinesi, in particolare quelli che vivono (per modo di dire) nella Striscia di Gaza, ridente località affacciata sul Mediterraneo, grande meno di un terzo del comune di Roma e più affollata di un treno di pendolari, sotto assedio da quasi venti anni ed ora rasa al suolo da quello che si dice essere il quarto esercito più potente del mondo.
Nello Yemen, qualcuno pensa che non sia giusto stare a guardare il genocidio dei palestinesi, e magari è convinto che non sia sufficiente indignarsi con un post sui social, per cui si è messo a colpire le navi che devono passare vicino alle sue coste per portare il mio pacchetto di caffè – e tante altre cose – sugli scaffali dei nostri supermercati. Ovviamente, questo ha indotto le compagnie che assicurano le navi ad aumentare il costo delle loro polizze, il che, assieme a tanti altri fattori che non sto qui a spiegare, ha portato alle stelle il costo del mio pacchetto di caffè. E non solo di quello.
Leggete cosa scrive il portale specializzato Quaffe: “Nel cuore del commercio globale, il Canale di Suez serve come una via d’acqua cruciale che collega l’Europa all’Asia. Aperto nel 1869, questo canale non è solo una testimonianza dell’ingegneria umana ma anche un’arteria vitale per il commercio internazionale, specialmente per il settore del caffè, che tocca la vita quotidiana di miliardi di persone.
(…) Il Canale di Suez, evitando la lunga rotazione attorno al Capo di Buona Speranza, riduce significativamente il tempo di viaggio per le navi mercantili. Circa il 10% del commercio mondiale transita attraverso questo canale, compresa una quota significativa del caffè consumato in Europa e negli Stati Uniti. La sua efficienza e funzionalità sono quindi imperative per mantenere stabili i prezzi del caffè e garantire la sua disponibilità. (…) Il settore del caffè, con i suoi centri di produzione principalmente situati in Brasile, Vietnam, e Colombia, dipende fortemente dal Canale di Suez per trasportare i chicchi ai mercati consumatori. Un ritardo o chiusura del canale può avere ripercussioni immediate sui prezzi globali del caffè, evidenziando la sua importanza non solo logistica ma anche economica per il settore.
(…) La logistica del caffè è una danza delicata di tempistica e costo, dove il Canale di Suez gioca il ruolo di protagonista. La stabilità del canale assicura che i chicchi di caffè raggiungano i torrefattori e i consumatori senza intoppi, mantenendo bassi i costi di trasporto e, di conseguenza, i prezzi al dettaglio. Il Canale di Suez è attualmente oggetto di tensioni a causa di attacchi, che hanno portato a una riduzione drastica del volume di spedizioni attraverso il canale. Nonostante le navi continuino a utilizzare il Canale di Suez, il volume dei container che passano attraverso di esso è sceso drasticamente (…). Questo dimostra l’importanza critica del Canale di Suez non solo per il commercio del caffè ma per il commercio globale in generale, evidenziando come incidenti o tensioni possano avere ripercussioni immediate e significative sulla logistica e sui mercati globali. (…)”
Quindi, un modo per far tornare il prezzo del mio pacchetto di caffè – e di tante altre cose – ad un livello più accettabile ci sarebbe: porre fine al genocidio dei palestinesi, riconoscere e realizzare il loro diritto a vivere sulla propria terra, restituendogli i propri campi, le case, le scuole, gli ospedali, l’acqua, tutto quello che Israele gli ha tolto. Si può fare, come si può arginare il cambiamento climatico e riportare al lavoro i braccianti sudamericani e asiatici. Le vite stroncate dei palestinesi, come quelle dei braccianti morti di fatica anche a pochi chilometri dagli scaffali del mio supermercato, quelle no, non si possono restituire.
CREDITI FOTO: Flickr, Luigi Rosa, CC BY-SA 2.0

Ex operatore sociale, marxista convinto, attivista per i diritti umani, innamorato di Irlanda e Palestina. In poche parole, un tipaccio.
2 commenti
Gran bell’articolo chiaro e comprensibilissimo. Apprezzo molto aver definito senza timore quanto sta accadendo in Palestina un Genocidio. penso anche io che sia così.
Cioè, secondo lei la colpa non è dei terroristi Houthi ma di Israele
Farebbe ridere se non facesse piangere
Massimo