Hussam Eesa è uno dei responsabili della pagina di informazione “Raqqa is being slaughtered silently”, un collettivo di trenta giornalisti, alcuni operanti dalla Siria, altri in esilio all’estero. Durante gli anni in cui l’Isis conquistava la Siria, Hussam, che aveva partecipato alla rivoluzione contro il regime di Assad subendo il carcere e le torture, insieme ai suoi colleghi ha svolto un lavoro coraggioso di documentazione delle violenze del Daesh e di come la vita si trasformava in un inferno per gli abitanti di Raqqa. Fra le città più grandi della Siria, prima della rivoluzione e della controrivoluzione del regime di Assad Raqqa contava circa 300mila abitanti. Oggi sono meno della metà – racconta Eesa a Kritica –, molti sono morti o dispersi, di loro non si sa più niente. Tanti altri sono fuggiti, alcuni in Europa, altri si trovano nei campi profughi, principalmente in quelli turchi.
In questi giorni in cui sui giornali di sinistra e centrosinistra abbiamo assistito a una celebrazione dei dieci anni dalla liberazione di Kobane, nella regione del Rojava, che ha lasciato pochissimo spazio alle sfumature e alla critica ma ha presentato in modo quasi celebrativo e unanime il progetto dei promotori del cosiddetto “confederalismo democratico” curdo promosso dal PKK di Abdullah Öcalan – che lo ha a sua volta derivato dalle idee del politologo Murray Bookchin –, non abbiamo potuto fare a meno di notare come il punto di vista degli arabi siriani, che rappresentano la maggior parte degli abitanti nella regione dell’Amministrazione autonoma della Siria del Nord Est, sia stato per lo più ignorato. Ma la situazione in cui si trova Raqqa contraddice – spiega Eesa – molti dei principi su cui si dovrebbe basare il proclamato confederalismo democratico.
Qual è la situazione di Raqqa in questo momento?
“Dal 2017, quando è stata liberata dall’Isis da parte della coalizione a guida americana di cui facevano parte le Forze democratiche siriane (SDF), controllate dal PKK, la città di Raqqa è sotto stretto controllo militare. Non c’è alcuna autonomia municipale, qui, non c’è il minimo comunalismo libertario. C’è una città controllata militarmente, senza segno alcuno di democrazia. Considerando che, prima di questa situazione, c’era l’Isis, è facile dire che le SDF sono meglio dell’Isis. Ma la realtà è che non sono poi così tanto meglio. La loro idea di fondo è quella di una conquista del territorio per la via ideologica e per la via militare, cioè macchiandosi di crimini nei confronti delle persone e imponendo la propria visione ai cittadini. E in questo senso, ecco, le somiglianze con l’Isis sono ben più di una. Le persone di Raqqa hanno partecipato in massa alla rivoluzione popolare contro Assad. E quando lo abbiamo fatto, lo abbiamo fatto perché volevamo libertà e democrazia. Non abbiamo ottenuto nessuna delle due cose, pur essendo parte di un territorio che oggi si proclama democratico e che in Europa molti considerano la punta avanzata di un progetto democratico.

Cosa è successo dopo la caduta del regime, l’8 dicembre?
Dopo l’8 dicembre la situazione è addirittura peggiorata. Nelle speranze di tanti abitanti di Raqqa, la caduta di Assad significava e tuttora significa la possibilità di una riunificazione per la popolazione siriana sotto il segno della libertà. Prima di tutto, come in tutto il resto della Siria, la liberazione dal regime di Assad è stata una grande festa popolare, la fine di un incubo durato oltre cinquant’anni. Ma queste speranze sono state deluse molto presto, perché molti di noi speravano che l’SDF sarebbe diventato una parte del nuovo esercito siriano. Che si sarebbe integrato al suo interno, rinunciando al controllo militare sui nostri territori. Che tutti avremmo avuto gli stessi diritti e goduto dello stesso statuto di cittadinanza di ogni altro siriano. Non dimentichiamo che molti, all’interno dello stesso esercito dell’SDF, sono siriani. Credevamo che si sarebbero uniti alla liberazione e al resto dei siriani. Che avremmo avuto una sola Siria, non più un controllo di partito-Stato e militare. E invece le cose finora sono andate molto diversamente. E ci sono fenomeni molto significativi in corso. Dall’8 dicembre a oggi più di 320 civili sono stati arrestati perché stavano festeggiando per strada la liberazione dal regime di Assad. I civili a Raqqa sono sottoposti a vessazioni costanti da parte dell’esercito.
L’esercito delle Forze democratiche siriane è costituito, come dicevi, da persone arabe e curde, dunque non è espressione solo della parte curda del DAANES?
La testa dell’esercito è curda. Sono curdi turchi, non curdi siriani. Il generale capo delle SDF è uno storico militante del PKK. Ogni decisione, compreso tutto ciò che riguarda la vita civile, passa da loro. Non c’è alcuna democrazia, neanche in parvenza. Un esempio molto chiaro è la mia situazione personale, che è la stessa di tanti cittadini di Raqqa esiliati in Europa: se io oggi provassi a tornare a Raqqa, verrei arrestato, per via del mio lavoro giornalistico, perché ogni volta che l’SDF arresta civili o commette altre ingiustizie verso la popolazione, noi lo scriviamo. La nostra testata è costretta a rimanere clandestina, esattamente come facevamo durante il regime di Assad e durante il periodo di controllo dell’Isis. Per noi non è cambiato nulla. Eravamo fuorilegge allora e lo siamo ancora adesso. Ma chiunque provi per esempio a organizzare una manifestazione di piazza contro le SDF o contro Öcalan viene arrestato.
La popolazione civile siriana, ci tengo a sottolineare questo aspetto, ha un pesante problema con due realtà: le SDF e il PKK. Non con la popolazione curda. La popolazione curda e quella siriana in queste zone convivono senza attriti. È il controllo dei partiti e dell’esercito a causare sofferenze. Una futura Siria federale in cui i curdi mantengono un proprio territorio federato non sarebbe di per sé un problema. Ma non se questo territorio è amministrato per la via del controllo militare e/o di partito, perché questo può essere forse confederalismo, ma di democratico non ha niente.
La storia di Raqqa è emblematica di tutto ciò che il popolo siriano ha vissuto da quando è insorto contro il regime di Assad.
Raqqa si è liberata dal regime di Assad nel 2013. La liberazione è avvenuta per mano dell’Esercito siriano libero insieme ad alcuni gruppi islamisti, come Ahrar al-Sham. Fino al 2014, la situazione in città non era certamente rosea, ma relativamente vivibile. C’era paura, perché il regime di Assad era ancora vivo e saldo al potere. Ma c’era anche entusiasmo per il fatto di averlo rovesciato, si potevano fare manifestazioni per le strade, dimostrare, e si trattava della prima grande città siriana dove il regime di Assad era caduto, perciò c’era grande attenzione verso quello che succedeva a Raqqa. Quando nel 2014 l’Isis prese il controllo, i cittadini di Raqqa hanno pagato un prezzo altissimo per la liberazione che avevano ottenuto. Si è scatenato l’orrore: persone decapitate per strada, persone rapite e scomparse di cui non si è più saputo nulla. Fra questi c’è anche Paolo Dall’Oglio, il monaco italiano che fu rapito proprio a Raqqa, un grande amico dei siriani, della nostra gente. La gente di Raqqa è quella che ha pagato il tributo più alto all’Isis. Si è parlato tanto dei rapiti stranieri, dei giornalisti che erano stati rapiti dall’Isis, una decina di loro in tutto, ma si è parlato pochissimo dei civili che venivano massacrati. Per questo il nostro sito si chiama “Raqqa is being slaughtered silently”, cioè “Raqqa viene massacrata nel silenzio”, perché l’attenzione internazionale era fortemente spostata verso i pochi casi eccellenti e molto meno verso di noi, la gente comune di Raqqa.
Ma l’Isis non ha scatenato soltanto la violenza. Quello che si dice ancora meno è che nei confronti dei siriani l’Isis ha portato avanti una offensiva ideologica. Ha fatto scuola, letteralmente, indottrinando migliaia di bambini e giovani, costruendo un’oppressione che è stata sia fisica, sia ideologica. Con questa eredità facciamo i conti tuttora, perché le lezioni di una simile scuola non si dimenticano dall’oggi al domani.
Poi, nel 2017, la coalizione anti-ISIS ha liberato Raqqa, ma l’ha liberata attraverso la distruzione. Prima di ottenere il controllo, hanno fatto dell’intero territorio un target militare. Hanno bombardato, hanno invaso con i carrarmati, una città che già dal 2013 aveva subito costanti bombardamenti da parte del regime di Assad. Quando si è insediato l’ISIS, non è stato più il regime a bombardare Raqqa – il regime di Assad non ha mai infastidito né tantomeno contrastato davvero l’ISIS – ma è stata la coalizione anti-ISIS. La campagna di liberazione del 2017 ha visto l’uccisione di almeno 5000 civili, e la sparizione di almeno altre 10mila persone, di cui non si è più saputo nulla. Oltre ai profughi: da 70mila a 100mila persone che sono scappate da tutta l’area.
Da quel momento, è cominciata l’era delle SDF, delle forze curde del PKK. Che hanno governato secondo il principio del più stretto settarismo: se non eri con loro, eri contro di loro. Se li criticavi, in automatico venivi considerato un membro dell’ISIS. Tante persone sono state arrestate con l’accusa di far parte dell’ISIS semplicemente perché criticavano le SDF.
Oggi ci sono migliaia e migliaia di prigionieri dell’ISIS nei centri di detenzione amministrati dalle SDF, e si parla tanto, con grande preoccupazione, di quale sarà la loro sorte se mai dovessero scoppiare nuovi conflitti armati pesanti e le SDF dovessero cedere il loro territorio. Che ne sarà di loro, si chiedono tanti. Molti di questi componenti dell’ISIS non sono neanche siriani, vengono dall’Europa o da altri Paesi arabi. Personalmente, ritengo scandaloso che nessuno si stia chiedendo che cosa ne sarà di tutti i civili che abitano in questo territorio, perché attualmente nel territorio di DAANES, controllato dal PKK da ben 8 anni ormai, la vita civile non esiste.
A nessuno interessa dei civili che abitano quel territorio, insomma.
Esatto. Non interessa né alle SDF, né al regime attualmente in carica a Damasco. Né gli uni né gli altri si pongono mai il problema dei civili siriani quando emergono attriti sul futuro assetto dei territori del Nord-Est siriano. Questa è la situazione per come la vedono gli abitanti di quel territorio. Quando a Damasco dicono che vogliono trovare una soluzione con i curdi, si preoccupano innanzitutto degli asset, per esempio gli impianti petroliferi che sono presenti qui. Non si preoccupano altrettanto delle persone. Continuiamo a essere quelli che pagano il prezzo più alto per tutto ciò che accade in Siria, e quando si fanno discorsi sulla nuova Siria, sulla Siria che verrà, continuiamo a essere esclusi da questi discorsi. Come se non fossimo dotati di una nostra propria soggettività politica e di una nostra dignità di cittadini. E questo fa paura ai raqqawi. Perché se in un futuro dovessero mai tornare le forze dell’ISIS a comandare da queste parti, approfitteranno certamente del fatto che tutti si sono dimenticati di noi, non solo per metterci di nuovo in catene, e vendicarsi della sconfitta del 2017 facendola pagare alla popolazione civile, ma anche per reclutare e indottrinare nuovamente fra le persone, giocando proprio sul sentimento di abbandono.
Le idee dell’ISIS potrebbero trovare terreno fertile.
Come dicevo prima, qualcosa dell’indottrinamento che hanno inflitto alla popolazione è rimasto. L’ISIS ha avuto una proiezione ampia, che non si può pensare di sconfiggere soltanto con le armi. Questo è il punto principale. In passato questo errore è stato commesso con altri gruppi terroristici. Negli anni ’80 Al Qaeda sembrava sconfitta perché in Afghanistan aveva subito una sconfitta militare. Ma non era stata affatto sconfitta, in realtà, e quando ha potuto si è riorganizzata, perché l’ideologia da cui era sorta sussisteva ancora. L’ideologia dell’ISIS tuttora sussiste, e qui non mi riferisco solo alla Siria, ma anche all’Iraq, ad alcune aree della Giordania, all’Arabia Saudita.
Che presa fanno, invece, le visioni e le idee democratiche? La preoccupazione riguardo al nuovo regime di Damasco, in Europa, è che non si tratti di un regime democratico.
La democrazia e il desiderio di democrazia sono state le spinte che hanno portato alla rivoluzione del 2011. Ma in questo momento, nessuno parla di democrazia intesa come sistema politico, perché prima di ogni cosa le persone rivogliono indietro la loro vita, la loro vita materialmente intesa: la corrente elettrica, l’acqua corrente. Il discorso sui valori democratici oggi è secondario rispetto alle necessità materiali. La libertà che tutti agognano passa dalla possibilità di riprendere a vivere la propria vita. Alcuni, come me, hanno la possibilità di riflettere anche sugli assetti politici con più agio, perché non abbiamo difficoltà materiali. E per quello che mi riguarda, non provo grande simpatia per il nuovo governo, poiché so da dove vengono. Ma al tempo stesso, non conosco neanche un Paese, neanche in Europa, che si sia liberato dalla dittatura senza periodi di transizione, violenti o negoziati che siano stati. Quindi penso sia più che comprensibile l’idea diffusa che a questo nuovo governo si debba dare una possibilità. Quando potrò andare in Siria, mi farò un’idea più precisa, vedrò con i miei occhi. Troverei d’altro canto più problematico chi dovesse proclamare una “democrazia” da un giorno all’altro e poi svuotarne il senso e lasciare solo la parola. Inoltre, la popolazione siriana in tutti questi anni è stata separata, segregata al suo interno. Chi ha vissuto nella regione di Idlib, parte di Aleppo, conosce meglio la vita sotto le forze di HTS – le milizie del nuovo governatore al Jolani, che ha ripreso il suo nome civile, Ahmad al-Shara. Chi viene dal nord-Est, negli ultimi dieci anni ha conosciuto soltanto l’ISIS e l’SDF. E infine chi viene da Damasco e dalle zone più a sud conosce soltanto il regime di Assad. Non ha idea di cosa aspettarsi da qualcosa di nuovo. Vivere sotto il regime di Assad significava vivere dentro un immenso Stato-prigione. Ecco perché la liberazione adesso prende il sopravvento su tutto. Qualsiasi cosa possa arrivare, queste persone hanno già vissuto talmente tanto orrore che non si faranno trovare impreparate.
Cosa pensi delle libertà civili e di come potranno essere garantite sotto questo nuovo regime?
Per esempio, per quanto riguarda le donne, in alcune zone della regione di Idlib dove HTS governa ormai da diversi anni c’è l’applicazione della sharia, ma il governo attuale sostiene che non sia per loro impulso diretto, bensì per volontà di alcuni gruppi locali. Per quello che riguarda loro, hanno ribadito l’intenzione di non imporre nulla di tutto questo. C’è anche da dire che il loro atteggiamento è prudente anche perché non sono nel pieno controllo della situazione, e stanno bene attenti a non perderlo.
Nel complesso, la popolazione siriana è comunque più felice di essersi liberata di Assad di quanto non sia preoccupata dei nuovi assetti che verranno.
Sì, anche perché c’è un fattore importante da considerare: tutti credevamo che il regime di Assad non sarebbe potuto cadere se non con un bagno di sangue spaventoso che avrebbe aggiunto un orrore definitivo all’orrore già vissuto in tutti questi anni. E invece non è andata così, e io stesso, devo dire, sono rimasto sorpreso e meravigliato del fatto che la caduta del regime sia avvenuta senza quasi spargimento di sangue. Assad non ha scatenato alcuna potenza di fuoco. Io spero che un giorno torni in Siria da prigioniero, che possa essere processato. E mi auguro che altrettanto si possa trovare una soluzione per i territori del nord-Est che non comporti spargimento di sangue, che riescano a trovare un accordo e che questo accordo, come dicevo prima, salvaguardi la vita dei civili, quelli siriani e quelli curdi.
Le persone a Raqqa sono libere di parlare di come immaginano il loro futuro, ora che Assad è caduto?
No. A Raqqa in questo momento non esiste nessun tipo di libertà politica. Non si possono tenere riunioni, non si possono fare manifestazioni. Controllo militare dell’SDF significa questo. Dal nostro account X riportiamo continuamente notizie di arresti o di uso della forza militare contro i civili e contro ogni libertà democratica. Questo è il principale motivo per cui oggi una persona come me non può tornare se non a rischio della sua stessa vita. Posso tornare in Siria, ma non nei territori del nord-Est. Ma c’è di peggio. Nelle battaglie contro le forze militari turche, per esempio la cruciale battaglia delle scorse settimane attorno alla diga del Tishreen, da nostre fonti dirette abbiamo saputo che l’SDF aveva usato civili come scudi umani. Non perché lo dicono i turchi si tratta di una notizia falsa, purtroppo è una notizia vera. Hanno radunato civili per ammassarli presso la zona di battaglia, minacciando chi si rifiutava.
La tua opinione del PKK non è però molto diversa da come viene dipinto da Erdogan.
Il PKK commette atti di terrorismo, lo fa, anche contro la popolazione civile. Dal punto di vista di un abitante di Raqqa, è un gruppo terroristico, come lo è l’ISIS. E gestisce la milizia in modo autoritario e totalitario. Appena due giorni fa, a Manbij hanno fatto esplodere un’autobomba in pieno centro abitato (l’attacco terroristico non è stato rivendicato da nessuno, ndr).
Dunque cos’è, dal vostro punto di vista, il confederalismo democratico?
Il controllo di questo territorio, militare, rigido e autoritario. E il mantenimento, in questo modo, di due Sirie. Al governo di Damasco l’SDF ha detto di essere disposto a inviare metà del petrolio estratto, ma che dal punto di vista politico e militare rimarranno loro al controllo. Questo significa di fatto dividere la Siria in due, avere due Sirie invece di una Siria unita. Quello che tanti di noi auspicano, invece, è che l’SDF si integri nel nuovo esercito siriano. Che la volontà di appartenere alla nuova Siria e di costruire la nuova Siria prevalga sul settarismo.
Quali pericoli arrivano dalla Turchia in questo momento?
La Turchia ha una serie di interessi specifici in Siria in questo momento, sui quali mantiene una posizione di potere. Il primo e il principale è che desidera sconfiggere il PKK. Il secondo è che desidera rimpatriare i tre milioni di siriani che oggi vivono in Turchia. E il terzo è che desiderano impiantare basi militari nel territorio siriano. Il mio auspicio è che, per quanto io stesso veda il PKK prima di tutto come un gruppo terroristico, la Turchia si ritiri dalla Siria il prima possibile, che cessino tutte le ingerenze straniere in Siria, che tutte le truppe militari si ritirino: da quelle turche a quelle americane, a quelle israeliane nel Golan; e che il Golan torni a essere controllato com’era durante il regime dalle forze di interposizione dell’ONU.
A questo scopo, però, il primo problema da risolvere è quello dell’SDF. Integrare l’SDF nel nuovo esercito siriano significa mettere in condizione la Turchia di non poter più avanzare interessi dovuti alla “lotta al terrorismo”. Ciò detto, per i civili siriani la situazione è più delicata che mai. Tutte le potenze interessate a mettere le mani sul loro pezzetto di Siria hanno una cosa sola in comune: l’interesse zero nei nostri confronti. E noi siriani lo sappiamo benissimo, perché 14 anni fa, quando lanciammo il nostro grido per liberarci di Assad, nessuno di loro ci è venuto in aiuto.
Nonostante queste preoccupazioni, credi che la caduta di Assad si possa considerare una vittoria del popolo siriano e della sua rivoluzione?
Sì. Senza dubbio alcuno, sì. Noi siriani siamo un soggetto politico. Sappiamo come governare il nostro Paese. Sappiamo come dar vita a una democrazia. Abbiamo molti problemi da superare ma questo è vero per tutti i Paesi che vivono e hanno vissuto processi di democratizzazione. Il nostro processo comincia da una rivoluzione popolare, questo è il punto di partenza. Una popolazione che si è sollevata contro un dittatore pagando un prezzo così alto rimane vigile, ha già visto tanto, ha già sofferto tanto, e ha imparato tanto dalle sofferenze vissute. Non siamo gli stessi del 2011, quando scendevamo in piazza senza sapere bene cosa stavamo facendo. Per esempio, noi oggi sappiamo che dobbiamo scongiurare in tutti i modi l’uso delle armi. Che non dovremo usare le armi.
Pensi che tante persone torneranno dall’Europa in Siria?
Non credo. Ormai le persone che abitano in Europa hanno lì la loro vita, la loro rete umana. Ma mi aspetto numerosi ritorni, in parte anche per diretta pressione ricevuta, di milioni di siriani dalla Turchia, dalla Giordania, dal Libano. E anche questo oggi preoccupa molto il nuovo regime. Che vita garantire a chi tornerà e non avrà nulla, non avrà più una casa, non avrà un lavoro? In questa fase le priorità siriane sono queste, i servizi da offrire ai cittadini. Il nuovo governo su questo si sta adoperando, sa che costruirà la sua stabilità anche su questo. E che dovrà gestire gli armamenti privati. Quando parlo delle armi, parlo delle armi private innanzitutto: i cittadini siriani, dopo gli americani, sono i principali detentori di armi private al mondo. E questo rappresenta un pericolo. Non so davvero come riusciranno a gestire questo aspetto.
Ci può essere la tentazione di vendette e di violenza di ritorno.
Tanti carnefici sono ancora lì. Immaginiamo un rifugiato che torna in Siria e si incontra con chi lo ha torturato mentre era in prigione. Non è uno scenario affatto impossibile. Io stesso sono stato in prigione nel 2012 e ricordo perfettamente chi è stato a torturarmi, a spegnermi le sigarette addosso. Non lo dimenticherò mai. Personalmente non cerco alcuna vendetta, vorrei vedere processato il mio torturatore in tribunale e trovarmi lì mentre lo condannano. Ma non mi aspetto che tutti siano come me. Nella regione di Latakia ci sono stati casi di giustizia sommaria contro alawiti, cioè persone appartenenti alla stessa setta degli Assad. Le armi diffuse in mano alle persone possono creare situazioni come questa, continuamente. D’altro canto non mi aspetto che il nuovo regime sia in grado di assicurare alla giustizia tutti i vecchi collaboratori assadisti, né che avrà la forza di impedire queste vendette personali. Non credo certamente che le favorirà, ma quanto possa scoraggiarle, non so se ne avranno la forza. Di certo non mi aspetto che acconsentiranno a pubbliche esecuzioni in piazza o cose del genere. Tante persone come me, in ogni caso, non cercano vendetta, cercano giustizia. Ma la vendetta è una opzione che non si può escludere. Ed è anche uno dei motivi per cui nel nord-est le popolazioni curde hanno paura di possibili cambiamenti. Temono che molti che sono stati vessati dall’SDF identifichino tutti i curdi con l’SDF e si vendichino su di loro. Per questo, per la pacificazione che cerchiamo, per la democrazia che cerchiamo, è essenziale un lavoro profondo e serio di distinzione fra l’SDF e i civili curdi. È il lavoro che noi di “Raqqa is being slaughtered silently” cerchiamo di fare tutti i giorni: far capire a tante persone che i curdi non coincidono con l’SDF, che il popolo curdo fa parte della Siria tanto quanto gli arabi.

Giornalista, fondatrice di Kritica.it. Puoi leggere suoi articoli e saggi su MicroMega, Gli Stati Generali, Africa ExPress. Ha vinto diversi premi fra cui il Premio Luchetta – Stampa italiana nel 2022.
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