Quella che segue è la trascrizione dell’intervento della nostra Federica D’Alessio al convegno di presentazione del libro “Genocidio” di Rula Jebreal nella Sala Caduti di Nassirya del Senato, il 29 maggio 2025, insieme all’autrice, ad Alessandra Maiorino e a Chantal Meloni. L’intervento è stato dedicato al tributo ai giornalisti palestinesi giustiziati dallo Stato d’Israele, e alla denuncia della complicità dei media occidentali.

C’è un passaggio del libro di Rula JebrealGenocidio. Quel che rimane di noi nell’era neoimperiale” in cui il giornalista di al Jazeera Wael al Dahdouh, intervistato dall’autrice, dice: “Si vendicano di noi attraverso i nostri figli”. Oltre un anno fa la famiglia di al Dahdouh è stata quasi completamente sterminata dall’esercito d’Israele, che ha più volte cercato di uccidere anche lui direttamente, senza ancora riuscirci. Israele ha ucciso sua moglie e tre dei suoi figli, uno dei quali, Hamza al Dadouh, era un giornalista a sua volta, ed è stato ucciso da un attacco mentre svolgeva il suo lavoro.

Dall’8 ottobre 2023 a oggi Israele non ha soltanto “ucciso” oltre 230 giornalisti palestinesi. Non si è trattato di vittime collaterali, rimaste coinvolte in attacchi. Israele ha mirato ai giornalisti che voleva uccidere, così come ha fatto con i medici, con i cuochi, con tantissime figure della società civile palestinese, compresi i bambini, come racconta il medico Mark Perlmutter nel libro: “Non si può sparare a un bambino due volte per sbaglio”. Non se sei un cecchino ultra-addestrato. Lo Stato d’Israele si è vendicato contro i giornalisti palestinesi, ha punito i giornalisti palestinesi, ha giustiziato i giornalisti palestinesi, per la colpa di essere proprio questo: giornalisti palestinesi.

A Gaza, nell’ultimo anno e mezzo, sono morti un numero di giornalisti superiore a quello dei giornalisti uccisi durante le due guerre mondiali, in Vietnam, nei Balcani, in Afghanistan messi insieme. Hossam Shabat, reporter di al Jazeera, a soli 23 anni aveva già scritto una lettera d’addio, perché sapeva che prima o poi l’esercito israeliano, che lo braccava da tempo, sarebbe riuscito a giustiziarlo.

Parliamo di questo in un appello firmato con circa 200 colleghi, uscito in questi giorni a pagamento in una pagina di Repubblica, un appello in cui prendiamo la parola contro la “congiura del silenzio”, ricordando ai nostri colleghi e colleghe che la complicità con un genocidio in corso è anche la complicità di chi, nel sistema mediatico, non soltanto non ha informato, non soltanto non ha usato le parole più appropriate per descrivere la violenza scatenata contro la popolazione palestinese, ma – tradendo il codice deontologico su cui questo mestiere si fonda – ha rinunciato alla verità dei fatti per preferire quella del potere; e in questo modo ha attivamente contribuito a fabbricare il consenso affinché la mattanza del popolo palestinese proseguisse non soltanto indisturbata, ma addirittura legittimata.

Israele ha impedito l’ingresso ai giornalisti internazionali a Gaza, e in questo modo ha fatto sì che nessuna testata internazionale potesse inviare suoi corrispondenti a verificare, attraverso l’uso delle fonti e degli strumenti del nostro mestiere, se le informazioni fornite dall’esercito israeliano, così come da Hamas, fossero vere o false, confermate o smentite, credibili o non credibili. Di fronte a una pretesa così sfacciata di costituire una fonte unica di informazione – da fare invidia al regime di Vladimir Putin –, i giornalisti di tutto il mondo avrebbero dovuto rifiutarsi di battere le notizie fornite dall’esercito e dal governo israeliani. Se non c’è possibilità di verifica, infatti, non è possibile fare il nostro lavoro e una notizia non può essere considerata tale. I media occidentali hanno invece per lo più fatto da cassa di risonanza alle notizie provenienti dal governo israeliano senza metterle in dubbio, contravvenendo così a uno dei fondamenti del nostro lavoro. Hanno accettato che la propaganda sostituisse l’informazione. Quando poi, come è successo sistematicamente –e spesso grazie al lavoro di colleghi israeliani oltre che palestinesi –, moltissime di quelle notizie venivano smentite, era ormai troppo tardi: la menzogna era già in circolo. Per evitare la disinformazione, infatti, le smentite servono a ben poco: l’unico modo è dare solo notizie verificate.

I nostri media hanno accettato di censurare il proprio linguaggio, alterando l’utilizzo delle parole, impedendo l’uso di alcune, in primis la parola che dà il titolo a questo libro, genocidio: ma non solo. Addirittura la parola “Palestina” è stata fatta oggetto di pesante censura su tanti media occidentali: in Israele la parola Palestina è tabù, si parla di “arabi”, mai di “palestinesi”. Al tempo stesso sono stati coniati nuovi termini per rappresentare la realtà in modo alterato: uno dei più odiosi è “pro-pal”, per designare coloro che hanno alzato la propria voce contro il genocidio in corso, che hanno rivendicato il loro diritto di parola, espressione e protesta contro le azioni dello Stato di Israele e in solidarietà con il popolo che sta subendo il genocidio. Non si tratta di “pro-pal”, parola che non vuol dire niente, e che a sua volta cancella il termine Palestina. Si tratta di persone che intendono, nella stragrande maggioranza dei casi, semplicemente rimanere umane; e per rimanere umani è necessario fare di tutto per fermare la mattanza e l’annichilimento dei propri simili. Accettare come ineluttabile ciò che sta avvenendo in Palestina oggi significa, infatti, disumanizzarsi. Ma per rimanere umani è necessario anche rimanere ancorati, testardamente, alla verità dei fatti; ricercarla e non negarla, non dissociarsi mentalmente dalla realtà, non sostituirla con approssimazioni, come pure tante volte, innumerevoli volte è stato fatto in questi mesi, nel raccontare le vicende di Gaza.

Tacciamo per decenza sull’alterazione quasi scientifica del senso del termine “antisemitismo”: utilizzato brandendolo come una spada per criminalizzare coloro che, in moltissimi casi, non soltanto non provano alcun odio per gli ebrei in quanto popolo ma o sono ebrei essi stessi, o sono da sempre in prima fila per difendere ebrei ed ebree dalle discriminazioni e dal razzismo. O sulla mistificazione di ciò che sta avvenendo in questi giorni, in cui sentiamo parlare di “caos” nella “distribuzione degli aiuti” mentre i nostri occhi vedono tutt’altro: vedono un sistema di controllo forzato dell’alimentazione di una popolazione all’interno di un ghetto; un sistema ispirato ai peggiori regimi totalitari, allo scopo di annichilirne ogni dignità. Un sistema contro il quale il popolo palestinese, pur stremato dalla fame, si rivolta.

Federica D’Alessio

Se in tutto questo tempo abbiamo potuto rimanere ancorati alla realtà dei fatti e alla verità del loro senso, anche nel dolore e nello strazio, lo dobbiamo interamente al coraggio e alla capacità di resistenza e di perseveranza delle giornaliste e dei giornalisti palestinesi, e di quelle poche voci che, come quella di Rula Jebreal, hanno raccolto le testimonianze di chi a Gaza si trovava; lo dobbiamo a chi giorno dopo giorno ci ha mostrato non soltanto le atrocità commesse da Israele, ma anche la vita che a Gaza va avanti nonostante tutto. Ci hanno mostrato i corpi martoriati delle vittime e però la dignità con cui continuano a cercare di istruirsi, dopo che tutte le scuole e le Università sono state distrutte; continuano a cercare di curarsi e di curare, dopo che gli ospedali sono stati trasformati in obiettivi militari, contravvenendo a ogni convenzione e legge; continuano a cercare di vivere, non solo di sopravvivere.

Se è vero come diceva Albert Camus che il giornalista è lo storico del presente, oggi la storia si sta scrivendo a Gaza, dove noi giornalisti occidentali non siamo. La storia si sta facendo davanti ai nostri occhi ma noi non siamo lì a raccontarla, lo stanno facendo per noi colleghi e colleghe che Israele punisce, con la vita, per questo. Fermiamo la mano di chi li sta giustiziando, uno dopo l’altro, un atto terroristico dopo l’altro. Fermiamo il genocidio del popolo palestinese.

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