Di fronte alla disfatta dei referendum dell’8 e 9 giugno, con oltre due terzi dell’elettorato rimasto a casa facendo fallire malamente i cinque quesiti referendari relativi alla dignità del lavoro e al diritto di cittadinanza per i nuovi italiani, torna in mente una memorabile battuta attribuita da qualcuno ad Alfredo Reichlin. Al compagno che gli si rivolgeva con un forte “Dobbiamo lottare!”, dopo la Marcia dei Quarantamila quadri che nel 1980 aveva posto fine, nel peggiore dei modi, all’ultima vera lotta operaia degna di questo nome, con tanto di visita e comizio di Berlinguer davanti ai cancelli della FIAT, lo storico dirigente comunista pare rispose: “Ma cosa vuoi lottare? È una sconfitta epocale e bisogna solo cercare di capire!”.
Oggi servirebbe un Alfredo Reichlin, possibilmente insieme a un Aldo Tortorella, a un Pietro Ingrao: personalità diversissime fra loro, ma in grado di innervare la cultura politica comunista e di sinistra in stagioni non meno difficili di quella che stiamo vivendo. Basti pensare che Ingrao fu direttore dell’Unità negli anni in cui la celere di Scelba sparava contro gli operai (memorabile la tragedia davanti alle Fonderie modenesi del 9 gennaio del ’50, in cui tra gli altri cadde il padre di Marisa Malagoli, poi adottata da Togliatti e Nilde Iotti), il governo De Gasperi varava la cosiddetta “Legge Truffa” e il maccartismo americano faceva sentire il proprio peso anche alle nostre latitudini.
Basti pensare che Tortorella dovette affrontare l’epoca delle passioni studentesche e dell’esplosione del fenomeno terrorista, rosso e nero, compresa la strage di Peteano e quelle di piazza della Loggia a Brescia e del treno Italicus nella Grande galleria dell’Appennino, nella notte fra il 3 e il 4 agosto del 1974. Quanto al già menzionato Reichlin, ingraiano, visse da protagonista sia la nascita del primo centro-sinistra, prima di dimettersi e cedere la direzione a Mario Alicata, sia la devastante stagione del delitto Moro, della strage di Bologna e, per l’appunto, della Marcia dei Quarantamila che segnò la fine dell’epoca aurea del sindacato italiano e, di fatto, della sua unità effettiva.
Invochiamo loro perché avevano, tutti e tre, il coraggio della verità. E anche oggi servirebbero intellettuali e dirigenti in grado di dire la verità. I referendum dell’8 e 9 giugno sono stati persi, e persi male. E questa tornata referendaria, a quarant’anni da quella del 9 e 10 giugno dell’85 sulla Scala mobile craxiana, segna un altro arretramento possibilmente definitivo, come fu quello, sul versante dei diritti e della libertà dei cittadini. Perché se allora il PCI e la CGIL si divisero fra l’ala berlingueriana e quella “migliorista”, con la netta prevalenza dei secondi sui primi e il tentativo di qualcuno di serrare le fila e salvare il salvabile – anche in onore del segretario scomparso tragicamente l’anno prima a Padova –, adesso non abbiamo più neanche un Berlinguer al quale ispirarci. Ci vorranno anni prima di tornare a parlare anche solo di ius scholae, mentre, per quanto concerne l’articolo 18 e le responsabilità delle imprese su appalti e tutele, il rischio è quello di dover archiviare la pratica.
Un altro esempio di referendum che divennero pietre tombali sulla possibilità di una politica in favore delle persone lo troviamo nel 1995, dieci anni dopo l’affossamento della Scala mobile. I dodici referendum, di cui tre dedicati all’informazione, tra cui quello relativo alle frequenze e quello sulla pubblicità nel corso dei film. Perdendo quei referendum – dopo una lotta a coltello che vide impegnata tutta la galassia Fininvest, da Sandra e Raimondo a Enrico Vanzina – l’universo intellettuale della sinistra andò sfaldandosi, peraltro dopo aver già compiuto un divorzio dolorosissimo, e sostanzialmente indotto, dal partito che ne era stato la culla e il punto di riferimento.
I cineasti alla Ettore Scola rimasero nel gorgo ma smisero di essere ascoltati; cedettero il passo a una nuova intellighenzia di profilo ben più basso, che convinse la sinistra di dover diventare sostanzialmente di destra, ispirandosi al clintonismo prima e al blairismo poi, con annessa Terza via e teorizzazione di Anthony Giddens (“Oltre la destra e la sinistra”), in un’orgia di populismo dall’alto poi sconfitta dal populismo berlusconiano da una parte e quello grillino dall’altra. Sia come sia, da quel referendum Silvio Berlusconi trasse la forza per tornare in pista dopo il fallimento del suo primo governo, organizzando la “traversata del deserto” che, complici le innumerevoli divisioni del centrosinistra nel quinquennio ’96-2001, lo avrebbe riportato al potere in un anno fatidico per i destini dell’umanità, segnando una mutazione politica, culturale e antropologica dalla quale, dopo un quarto di secolo, non ci siamo ancora ripresi e, forse, non ci riprenderemo mai.
Facciamo un salto di 30 anni e veniamo a oggi, dove hanno prevalso, e non di poco, le due destre: quella post-fascista di Giorgia Meloni e quella tecnocratica di Matteo Renzi, con annessi addentellati all’interno del PD che, non a caso, già chiedono, sia pur a bassa intensità, un chiarimento a Elly Schlein, cioè si preparano a sferrarle l’assalto finale per riprendersi il partito. Non ne esce di certo rafforzata la sua leadership, e neanche quella dell’opposizione unitaria progressista.
In un quadro simile, la tentazione di rifugiarsi nella propaganda e avocare a sé i circa quattordici milioni di persone che hanno votato Sì è comprensibile, ma infelice. Non aiuta né il sindacato, né i partiti dell’opposizione progressista. Non aiuta certamente gonfiare i numeri della propria capacità/volontà di mobilitazione, come è stato fatto a proposito della manifestazione del 7 giugno su Gaza, dove le presenze reali erano circa un decimo di quelle dichiarate e la piazza, pur composta da persone altamente consapevoli e convinte di esserci, si è dispersa e sparpagliata sia alla partenza sia all’arrivo, non guidata e non diretta da alcuna leadership realmente unita. E non aiuta non fermarsi a riflettere in chiave profondamente autocritica sul duplice disastro cui abbiamo assistito in questo fine settimana, con un sindacato da cinque milioni di iscritti e tre partiti complessivamente votati da oltre dieci milioni di elettrici ed elettori che non sono stati in grado di mobilitare la cittadinanza al di là del loro “zoccolo duro”, su temi cruciali per il proprio futuro e per quello della democrazia. La qualesenza partecipazione popolare, semplicemente cessa di esistere.
Lo stato di salute della Cgil
Chi scrive ha sincera stima di Maurizio Landini e del suo tentativo di restituire voce e centralità al sindacato di cui è segretario generale. Ma a proposito di verità, non possiamo non prendere atto di una sequenza di metamorfosi all’interno del principale sindacato confederale italiano che da ormai oltre un trentennio anestetizzano il ruolo che potrebbe, ma non vuole, avere nel mantenere viva la fiammella del conflitto sociale e della partecipazione democratica di questo Paese.
Una metamorfosi il cui inizio possiamo datare al 1993, quando Bruno Trentin firmò il Protocollo Ciampi relativo alla politica dei redditi e alle modalità di contrattazione e si dimise, ben cosciente del fatto che quelle politiche avrebbero indebolito sia la forza salariale dei lavoratori, sia il potere di mediazione dei sindacati. Furono scelte figlie dell’era di Maastricht, quando l’Europa sembrava il non plus ultra e la bussola dei sedicenti “progressisti” era orientata a raggiungerla a ogni costo, compresa la follia di smantellare l’IRI e di privatizzare tutto il privatizzabile, dalle Ferrovie a Telecom, ossia degli asset strategici (il direttore generale del Ministero del Tesoro si chiamava Mario Draghi);le conseguenze che sono sotto gli occhi di chiunque.
A Trentin succedette Sergio Cofferati, oggi ricordato per i tre milioni di manifestanti al Circo Massimo in difesa dell’articolo 18, ma che all’epoca venne percepito da molti come una svolta a destra. Senza voler mancare di rispetto a nessuno, il momento più critico della segreteria di Cofferati fu rappresentato non tanto dallo scontro con i governi turbo-riformisti di D’Alema (quella è una delle sue battaglie più meritorie, a cominciare dallo scontro che ebbe luogo in occasione del congresso del PDS nel febbraio del 1997) ma dalla posizione della CGIL sul G8 di Genova, quando si rivelò più a sinistra persino il leader del sindacato conservatore americano, l’AFL-CIO, il quale denunciò espressamente che la globalizzazione liberista, per com’era stata pensata e per come la stavano attuando, avrebbe messo in ginocchio l’Occidente, portando la democrazia all’esaurimento. John Sweeney non era Bernie Sanders, ma sapeva il fatto suo.
La rottura palese si consumò proprio a Genova, dopo l’omicidio di Carlo Giuliani in piazza Alimonda (suo padre Giuliano era un dirigente della CGIL di area migliorista), quando il sindacato rimase freddo sul partecipare o meno l’indomani al corteo internazionale (erano previste inizialmente centocinquantamila persone, se ne presentarono trecentomila) mentre la FIOM di Claudio Sabattini aderì senza battere ciglio. Una simile frattura si è, almeno in parte, rimarginata nell’ultimo periodo grazie a Maurizio Landini, ma sono trascorsi vent’anni: un periodo nel quale, in Italia e nel mondo, è successo di tutto.
Per Cofferati, dopo l’esperienza alla guida della CGIL, si aprirono le porte della politica: non come leader del Correntone dei Democratici di Sinistra, che sarebbe stato il suo habitat naturale, ma come sindaco di Bologna, nel 2004, dove ha oggettivamente deluso, tanto che la sua esperienza è durata, anche per scelta sua, solo un mandato: una decisione chirurgica dell’allora maggioranza fassinian-dalemiana per far fuori un concorrente autorevole e condurre i DS verso il PD senza troppe opposizioni. Anche in questo caso, le conseguenze sono sotto gli occhi di chiunque.
A succedere a Cofferati, in Corso Italia, nel 2002 fu Guglielmo Epifani: un uomo rispettabile, ma forse troppo mite per una stagione, quella del berlusconismo arrembante e dell’inizio della crisi dell’Occidente – con tanto di fallimento della Lehman Brothers nel mezzo –, che avrebbe richiesto una figura più combattiva e anche più aspra nel contrasto a una deriva che, invece, la sinistra del tempo quasi assecondò, ancora prigioniera del terzaviismo su cui si fonda, politicamente ed economicamente, il Partito Democratico; inteso da Veltroni come un grande contenitore all’americana e rivelatosi, col passare degli anni, un soggetto indistinto, nel quale ha trovato posto tutto e il suo contrario.
Susanna Camusso, pur essendo stata eletta nel solco dell’epifanismo, si è rivelata più agguerrita rispetto al predecessore, se non altro perché ormai la crisi del paradigma derivante dal Washington Consensus e dall’esaltazione acritica della “fine della storia” e del trionfo definitivo dell’Occidente era conclamata. Ma anche a lei è mancata la battaglia sulle norme del governo Monti, dalla legge Fornero sulle pensioni al sostanziale smantellamento dell’articolo 18. Lo sciopero contro il Jobs Act renziano che proclamò insieme alla UIL nel 2014 – ma sotto la spinta dell’ascendente Landini alla testa della FIOM –, riempì piazza San Giovanni, ma fu troppo poco e troppo tardi, specie se si considera che persino alcuni autorevoli esponenti dell’ala bersaniana del PD, compreso Mario Tronti, padre dell’operaismo italiano, Valeria Fedeli, Antonio Misiani e Cesare Damiano diedero sostanzialmente il via libera a un provvedimento sbagliato e dannoso, con il solo scopo di non spaccare il partito, destinato naturalmente a rompersi malamente tre anni dopo in seguito al referendum costituzionale perso da Renzi il 4 dicembre 2016 e alla ricandidatura dello stesso, artefice di quel tentativo fallito di stravolgere la Costituzione (a proposito di altri referendum falliti che hanno cambiato la storia d’Italia), alla segreteria del PD, peraltro dopo aver annunciato coram populo che, in caso di sconfitta, si sarebbe non solo dimesso da Palazzo Chigi ma ritirato dalla vita politica.
Tornando a Maurizio Landini, ora che la sua esperienza da segretario della CGIL è al giro di boa possiamo tracciare un bilancio di quest’avventura. Ha fatto il possibile in condizioni quasi impossibili, attraversando la stagione del Covid e dell’anti-politica al culmine. Ha mantenuto buoni rapporti con i partiti del centrosinistra, o con quel che ne resta, e si è difeso all’interno, forte anche del fatto che chiunque sa, nel principale sindacato italiano, che se non fosse stato eletto e rieletto lui, saremmo di fronte a una crisi ancora più acuta. I punti critici riguardano l’essere rimasto indietro nell’elaborazione politico-culturale, non essendosi posto fino in fondo il problema del precariato esistenziale rappresentato dalle partite IVA e dalle varie forme di sfruttamento, e non avendo saputo acquisire un adeguato pensiero della crisi per quanto concerne l’intelligenza artificiale e i problemi legati a una fase di tecnologia avanzata che rimette in discussione tutti i concetti precedenti e le certezze acquisite nel secolo precedente.
Chi scrive non se la sente di gettargli la croce addosso, meno che mai in questo momento, ma nemmeno di rinunciare a una seria analisi critica di ciò che sta accadendo, senza la quale ogni speranza di ricostruire viene meno.
Il redde rationem nel PD
Un’ultima considerazione la merita il Partito Democratico. Elly Schlein è stata eletta, il 26 febbraio del 2023, non perché fosse giovane, donna o anti-proibizionista, non solo almeno, ma soprattutto per non dover più assistere alla rottura che nel 2022 ha consegnato l’Italia nelle mani di questa destra con poco più di dodici milioni di voti, ossia quanti ne aveva presi il solo PCI alle elezioni del ’76.
Alle primarie l’ha votata un elettorato urbano, il ceto medio riflessivo, i giovani, una parte del mondo della sinistra e persino dei 5 Stelle proprio per riannodare i fili e ribellarsi a un destino che sembrava scritto già allora, coscienti del fatto che se avesse prevalso Stefano Bonaccini – un discreto amministratore ma troppo legato agli anni e ai canoni del renzismo –, di quel partito e delle sue ambizioni di governo non sarebbe rimasto alcunché. L’ha votata chi ha capito che non ci si può più rifugiare nel moderatismo. Chi crede a un’idea di coalizione ed è poco o nulla legato all’appartenenza partitica un tempo prevalente: oggi un ventenne colto e politicamente attivo non si preoccupa del partito in sé ma del campo politico di cui esso fa parte. Del resto, il passaggio dalla Repubblica dei partiti alla “Repubblica dei cittadini”, tanto cara allo storico cattolico Pietro Scoppola, appare ormai irreversibile, anche per come si configura ormai la società italiana e mondiale. Duole dirlo, ma è probabile che la sfida di Elly sia, ahinoi, fallita. Perché il suo partito di aprirsi non ne ha alcuna voglia, perché la sua componente terzaviista, di cui il renzismo altro non è che una delle incarnazioni, è preponderante anche quando è in minoranza, e perché il distacco fra il gruppo dirigente e l’elettorato è ormai conclamato. Se così non fosse, non avremmo mai assistito alla nascita del fenomeno grillino, rimasto in auge nonostante le sue notevoli evoluzioni, ultima delle quali quella contiana, proprio perché risponde al bisogno crescente, nell’elettorato di sinistra, di essere rappresentato senza ambiguità su temi cruciali come il lavoro, la pace e il posizionamento internazionale, oltre a essere meno pachidermico, più aperto e in grado di accogliere le istanze che salgono dal “grembo della società” (la citazione dossettiana è voluta) senza dover fare i conti con una struttura partitica onestamente mastodontica per la realtà del mondo contemporaneo.
Il punto conclusivo, per quanto concerne Schlein, è che continua a essere percepita come un’estranea, e in parte lo è, come un’irregolare, e in parte lo è, ma soprattutto come una persona che persegue uno schema e un progetto politico antitetico al centrismo delle origini, di cui la famosa “vocazione maggioritaria” altro non è che la formula magica per coprire l’effettivo intento dell’operazione. Peccato che dal 2007, anno di nascita del PD, siano trascorsi ormai diciott’anni e che quello schema di temperamento al centro delle questioni sociali non funzioni più in nessuna parte del globo. Per capirlo, servirebbe un’elaborazione culturale che da quelle parti manca se non del tutto, quasi del tutto a chi si ostina a ridurre ogni questione a un mero discorso di alleanze, come se fosse possibile mettere insieme, come detto, tutto e il suo contrario (Conte e Calenda, per farla breve) solo per raggranellare i voti necessari per dar vita a un esecutivo che durerebbe, fra mille contraddizioni, da Natale a Santo Stefano, per poi riconsegnare il Paese alla destra in via definitiva.
E non basterà nemmeno vincere bene le prossime Regionali, perché si tratterà comunque di successi locali, per giunta ad opera di personaggi che non sono entrati in rotta di collisione con l’attuale segretaria ma di certo non ne condividono la linea, da Giani a Decaro. La stagione dei sindaci e degli amministratori locali non funzionò, a livello nazionale, dopo i successi dell’autunno del ’93 (Rutelli, Castellani, Bassolino e via elencando), figuriamoci se può essere riproponibile trentadue anni dopo in un contesto nel quale tutte le decisioni fondamentali vengono assunte a migliaia di chilometri di distanza e i temi dirimenti si chiamano, tanto per citarne due, Ucraina e Palestina.
Può riuscire il PD a dar vita a un vero congresso, simile a quello celebrato lo scorso novembre dal M5S, nel quale definire, una volta per tutte, la sua linea e le alleanze che ne derivano? Ce lo auguriamo, ma la vediamo difficile. Ci speriamo, ma non ci crediamo granché. È più probabile che questa messa in discussione della globalizzazione neo-liberista e delle sue drammatiche conseguenze avvenga nell’universo contiano: per i motivi che abbiamo già spiegato e perché quel soggetto è un figlio diretto di Seattle, di Genova e dei movimenti alterglobalisti di inizio secolo, dunque ha nelle sue corde la ribellione a un modello economico e di sviluppo non solo iniquo ma disumano.
Facciamo riferimento, nel finale, al Gramsci delle “Lettere dal carcere”, quando afferma: “Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio. Mi sono convinto che bisogna sempre contare solo su se stessi e sulle proprie forze; non attendersi niente da nessuno e quindi non procurarsi delusioni. Che occorre proporsi di fare solo ciò che si sa e si può fare e andare per la propria via. La mia posizione morale è ottima: chi mi crede un satanasso, chi mi crede quasi un santo. Io non voglio fare né il martire né l’eroe. Credo di essere semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo”. È così. La sinistra, negli ultimi trent’anni, si è acconciata a essere una versione gentile della destra o qualcosa di simile, peccando non solo per opere ma soprattutto per omissioni, fino ad abbandonare a se stesse almeno due generazioni, non a caso cresciute in un paradigma anti-politico e diremmo anti-sociale di cui l’astensione dal voto costituisce solamente la punta dell’iceberg. Chiunque abbia presente il disagio che si respira nelle periferie degradate si pone la domanda: quanto servirebbe qui una sezione di partito che non prometta favori ma magari provi a risolvere i problemi quotidiani di chi non sa più come rivendicare i propri diritti, dalla sicurezza al lavoro? Hanno prevalso, invece, le “passioni tristi”, con più di una generazione invecchiata precocemente e sfiduciata nei confronti di chiunque.
Come sosteneva Aldo Moro in un’intervista a Scalfari, rilasciata nel febbraio del ‘78 e pubblicata in ottobre, cinque mesi dopo la sua drammatica fine, il rischio concreto per i governisti che stasera magari già pregustano nuove larghe intese o uno schema che escluda tutte le ali movimentiste, dai 5 Stelle ad AVS, il rischio è che si trovino a governare da soli, governando lo sfascio del Paese e affondando con esso. Moro parlava della DC ma l’argomentazione è talmente forte da essere tuttora attualissima. Non sappiamo cosa ne sarà di Elly Schlein e del campo progressista dopo questo massacro referendario e una tornata elettorale che anche nei comuni si è rivelata alquanto deludente. Auspichiamo che ritrovi la lucidità e vada avanti, impegnandosi a fondo in una missione quasi impossibile: cambiare il PD e trasformarlo nel partito di sinistra che non è mai stato, restituendo al riformismo l’accezione nobile che aveva negli anni Settanta, quando le riforme varate andavano in direzione del progresso e non dell’esclusione e del regresso. È ciò che chi scrive si sente di augurare anche al prossimo segretario o segretaria della CGIL: non tornare indietro.

Giornalista e scrittore, collabora da anni con Articolo 21, TPI, Confronti, Ytali, ReStart e Focus on Africa, oltre a condurre online la trasmissione L’Emiciclo. Autore di saggi, romanzi e raccolte di poesie, ha pubblicato di recente “Democrazia tradita” con Marco Revelli (Paper First) e “Vent’anni” con Giorgia Serughetti (People editore).