Un abbraccio liberatorio ha accolto Cecilia Sala al suo ritorno in Italia, dopo 21 giorni di detenzione nel carcere di Evin a Teheran. Arrestata il 19 dicembre scorso, la giornalista italiana è stata al centro di un caso intricato che ha messo in luce le complesse relazioni tra Italia, Iran e Stati Uniti. Pochi giorni prima della sua liberazione, Teheran aveva negato l’esistenza di qualsiasi collegamento Sala-Abedini, tra l’arresto di Cecilia Sala e quello del cittadino iraniano Mohammad Abedini Najafabadi in Italia. Il portavoce del Ministero degli Esteri iraniano aveva ribadito che l’arresto della giornalista fosse avvenuto per “violazione delle leggi della Repubblica Islamica”. Nel frattempo, la premier Giorgia Meloni si era recata dal presidente eletto Donald Trump per parlare anche della giornalista italiana trattenuta a Teheran.

Nonostante le dichiarazioni ufficiali, i legami tra i due arresti sembrano innegabili: alla liberazione di Cecilia Sala è seguita, dopo pochi giorni, quella di Mohammad Abedini Najafabadi – rientrato a Teheran il 12 gennaio.

Dall’arresto dell’ingegnere alle accuse
Mohammad Abedini Najafabadi è un ingegnere iraniano residente in Svizzera. Assunto come borsista per un post-dottorato dal Politecnico Federale di Losanna dal 2019 al 2022, ha poi fondato una società intitolata Illumove SA, presente nel registro di commercio.

Il 16 dicembre scorso, durante uno scalo a Malpensa, Mohammad Abedini Najafabadi era stato fermato dalla Sezione Antiterrorismo della Digos di Milano e dal personale dell’Ufficio di Polizia di frontiera, con il coordinamento della Direzione Centrale della Polizia per il Contrasto dell’Estremismo e del Terrorismo esterno, in seguito alla richiesta d’arresto statunitense ricevuta tramite red notice di Interpol il 13 dicembre scorso e poi convalidato.La Procura di Milano aveva aperto un fascicolo senza titolo di reato sulle modalità dell’arresto.

La notizia era stata ricevuta con una certa sorpresa, come ha fatto notare il giornalista del manifesto Mario di Vito sottolineando come gli organi di intelligence italiani non fossero stati informati in tempo sulla vicenda. Non è tuttora chiaro se l’eventuale scarsa cautela fosse dovuta a motivi politici o a un mero formalismo procedurale, considerata la delicatezza di questi casi per la loro inevitabile natura politica e diplomatica.

Come riportato sul sito web di Interpol, una red notice non costituisce un mandato di arresto internazionale, bensì una richiesta di arresto preventivo. Gli Stati membri applicano le proprie leggi nazionali per decidere se accogliere tale richiesta. Nel caso di Mohammad Abedini Najafabadi, l’ingegnere iraniano possiede un permesso di soggiorno svizzero, non ha precedenti penali e, soprattutto, non aveva accuse che rientrassero pienamente nell’ordinamento giuridico italiano. A questo va aggiunto che, trovandosi a Malpensa, avrebbe presto lasciato il Paese, dunque il “pericolo di fuga” avrebbe potuto giustificare l’arresto preventivo su richiesta statunitense.

Il Dipartimento di Giustizia americano ha accusato Mohammad Abedini Najafabadi di aver esportato illegalmente una tecnologia statunitense in Iran attraverso Illumove SA, che sarebbe stata poi fornita al Corpo dei Guardiani della Rivoluzione (IRGC) per un attacco con droni. L’attacco, si legge, uccise tre soldati americani di stanza nel nord della Giordania (vicino al confine con la Siria) il 28 gennaio 2024. Le accuse contro l’ingegnere iraniano sono, quindi, da parte statunitense, quella di aver violato la International Emergency Economic Powers Act (IEEPA) e le Iranian Transactions and Sanctions Regulations (ITSR), oltre ad aver fornito materiale a supporto di un’organizzazione terroristica, in questo caso il IRGC. A tali accuse si aggiunge anche quella di conspiracy. Negli Stati Uniti, per configurare reato di conspiracy è sufficiente la partecipazione consapevole a un’associazione o un accordo finalizzato a infrangere la legge, senza che vi sia necessariamente il compimento del reato-fine (ovvero dell’obiettivo dell’associazione).    

Qui entra in gioco il Trattato di Estradizione tra i due Paesi, che richiede la “doppia incriminazione” per concedere l’estradizione: il reato contestato deve essere considerato tale per entrambi gli ordinamenti giuridici. Tuttavia, la IEEPA e la ITSR sono leggi statunitensi, non riconosciute dall’ordinamento giuridico italiano. Come sottolinea la giornalista Luciana Borsatti, queste leggi, in particolar modo la ITSR, riguarderebbero l’Italia solamente come sanzioni “secondarie”, dunque “subite” dall’Europa. In altre parole, si tratta di leggi extraterritoriali, una questione spinosa poiché l’UE non riconosce l’applicazione extraterritoriale delle leggi adottate da paesi terzi, considerando tale pratica contraria al diritto internazionale. A questo si aggiunge il fatto che l’Unione Europea non ha mai designato l’IRGC come “organizzazione terroristica”, nonostante le pressioni statunitensi in questa direzione.

Questi elementi non invalidano del tutto la richiesta di estradizione: le autorità americane accusano l’ingegnere anche di conspiracy, un’accusa che potrebbe parzialmente superare l’ostacolo della doppia incriminazione, per quanto solo rispetto alla struttura del reato associativo, non ai reati-fine. Il Trattato di Estradizione tra Stati Uniti e Italia prevede che se il reato-fine – vale a dire l’obiettivo dell’associazione – è riconosciuto come reato anche dalla legge italiana, allora è possibile procedere con l’estradizione anche per il solo reato associativo. Questo perché la conspiracy potrebbe trovare una corrispondenza legale nei reati associativi previsti nell’ordinamento italiano – ossia reati dove tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti, per esempio l’associazione per delinquere e l’associazione con finalità di terrorismo – che, pur non coincidendo pienamente con la conspiracy statunitense, ne condividono la natura di illecito per il solo fatto di partecipare all’associazione in sé. In sostanza, se la violazione di ITSR e IEEPA richiede una corrispondenza specifica con l’ordinamento italiano, l’accusa di conspiracy potrebbe “aggirare” tale difficoltà: è sufficiente che il crimine a cui è finalizzato l’accordo o l’associazione sia riconosciuto anche in Italia, senza che la fattispecie della “conspiracy” corrisponda perfettamente all’associazione per delinquere. In altre parole, se le autorità statunitensi riescono a dimostrare che l’accordo (conspiracy) puntava a un crimine che in Italia è comunque reato, si soddisfa parzialmente il requisito della doppia incriminazione.

Se l’ambito giuridico estradizionale è fra i più complessi, l’elemento di conspiracy rappresenta un terreno particolarmente scivoloso: si tratta di una zona giuridicamente grigia e, alla luce di un’analisi politica del caso, anche controversa. La richiesta formulata dagli Stati Uniti sarebbe stata piuttosto debole qualora si fosse basata sulle altre accuse, ed è qui che la conspiracy funge da unico “cavallo di Troia” per avviare un caso di cooperazione giudiziaria, aggirando parzialmente il requisito di doppia incriminazione.

I rischi di confinare la politica al diritto
Quando le norme italiane/europee coincidono con quelle statunitensi, il trattato di estradizione rappresenta semplicemente un caso di cooperazione internazionale. La conspiracy, tuttavia, offre uno strumento agli Stati Uniti per tentare di far “rientrare” alcune condotte sotto la categoria di reato associativo, sperando che lo Stato ricevente ne veda l’equivalente all’interno del proprio ordinamento. Di conseguenza, la conspiracy diventa un espediente giuridico che trova terreno fertile in un contesto di rapporti di potere asimmetrici, come quelli tra Stati Uniti ed Europa.

Il Ministro di giustizia italiano conserva sempre la facoltà di negare l’estradizione per ragioni diplomatiche. Tuttavia, in un contesto geopolitico in cui l’Europa dipende fortemente dagli USA per motivi economici, militari e politici, la volontà di entrare in rotta di collisione con Washington è minima. Questo rafforza inevitabilmente l’asimmetria di potere a favore degli Stati Uniti.

Nel caso di Mohammad Abedini Najafabadi, l’egemonia normativa degli Stati Uniti emerge chiaramente: accusato di aver violato due leggi statunitensi non riconosciute dall’ordinamento italiano e, oltretutto, extraterritoriali; di fornire tecnologia a un apparato militare di uno Stato terzo, designato come terrorista da Canada e Stati Uniti; di conspiracy per tentare di superare parzialmente il requisito della doppia incriminabilità. A tutto questo si aggiunga la presenza di una classe politica incline a non scontrarsi con Washington. Significativo, in questo senso, il fatto che Giorgia Meloni si sia recata direttamente da Donald Trump in una visita lampo nel bel mezzo della crisi. Il rilascio di entrambi i detenuti in tempi tutto sommato brevi ci dice di un negoziato evidentemente ben riuscito fra la Prima ministra italiana e la Casa Bianca di Biden, tuttora responsabile di ogni decisione, ma è plausibile che Meloni abbia concordato anche con Trump un sostanziale “silenzio-assenso”, laddove il pugno di ferro con l’Iran è un tratto irrinunciabile dell’approccio trumpiano. Sottovalutare questi elementi e innanzitutto l’asimmetria di potere tra Stati Uniti ed Europa, riducendo la vicenda a una questione squisitamente giuridica, non permette di comprendere le complessità in gioco, né di interpretare le decisioni politiche in merito, compreso attraverso le domande necessarie: che cosa ha promesso Meloni ai due Presidenti statunitensi, quello uscente e quello in entrata? Oltre ai rumor trapelati in merito al contratto in discussione con Elon Musk per la fornitura satellitare, su questo aspetto non si hanno notizie certe.

Se la conspiracy è l’elemento tecnico preso in esame, il contesto (politico, militare, economico) e la rete (Interpol, trattati di estradizione) fungono da leva di pressione. La domanda da porsi, quindi, diventa: dove si configura, per uno Stato sovrano come l’Italia, la resistenza all’esercizio di queste pressioni, se i margini per farlo sono stati ridotti in ciascuna di queste fasi?

Extraterritorialità: l’asimmetria del potere nelle sanzioni unilaterali
Come già accennato, l’applicazione extraterritoriale delle leggi statunitensi rappresenta un tema di lunga data, considerato controverso e problematico dalle autorità europee. Per “extraterritorialità” si intende l’estensione dell’applicazione di una legislazione oltre i confini territoriali dello Stato che l’ha emanata, influenzando individui, imprese ed eventi in altre giurisdizioni. Gli Stati Uniti sono noti per far valere ampiamente alcune delle loro leggi al di fuori del proprio territorio, coinvolgendo cittadini, aziende e transazioni – spesso di soggetti non statunitensi – che operano all’estero. Questo fenomeno è particolarmente evidente nelle sanzioni unilaterali imposte dagli USA, che si traducono frequentemente in “sanzioni secondarie” colpendo operatori non statunitensi anche fuori dai confini americani.

L’Unione Europea, che non riconosce l’applicazione extraterritoriale di leggi adottate da stati terzi, ha intrapreso diverse misure per contrastarne gli effetti negativi sulla propria economia. Un esempio significativo è la “Blocking Statute” (1996), uno strumento nato per tutelare gli operatori europei che intrattengono rapporti commerciali legali con i Paesi colpiti da sanzioni unilaterali statunitensi (per esempio Cuba, Iran, Siria, Sudan e altri), proibendol’applicazione di leggi di stati terzi a operatori europei. Un modo per conservare almeno un’apparenza di sovranità nei rapporti fra Stati, laddove il contesto è in realtà quello di una forte asimmetria di potere, tale per cui i desiderata statunitensi riescono a imporsi sugli interessi autonomi dei diversi Paesi europei, che si tratti di rapporti commerciali o, come abbiamo visto con il caso Sala-Abedini, di questioni di giustizia e diplomatiche, essendo alcune delle accuse rivolte ad Abedini intrinsecamente extraterritoriali, come IEEPA e ITSR (nell’ambito di questo articolo tralasciamo volutamente le questioni legate alle sanzioni per violazione dei diritti umani e le loro contraddizioni, perché avrebbero bisogno di un approfondimento specifico, ndr). Non è possibile, quindi, analizzare il caso Abedini senza pienamente comprendere la portata problematica dell’applicazione extraterritoriale delle leggi statunitensi, ignorando un tema da sempre controverso a Bruxelles.

In seguito all’uscita unilaterale degli USA, per volere di Donald Trump, dal Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) nel 2018, l’UE si è affrettata ad aggiornare la Blocking Statute per tutelare le operazioni commerciali europee con l’Iran, ideando strumenti innovativi per facilitare le transazioni e gli scambi commerciali, per esempio l’Instrument in Support of Trade Exchanges (INSTEX).

Nonostante i tentativi, i risultati raggiunti sono stati limitati: molte aziende europee – soprattutto quelle con interessi commerciali negli Stati Uniti – hanno scelto di conformarsi alle sanzioni americane per minimizzare il rischio di subire pesanti multe, piuttosto che conformarsi alle leggi europee. L’incertezza legale ha scoraggiato investimenti e attività commerciali europee con gli Stati sanzionati unilateralmente da Washington. Qui entra in gioco l’asimmetria del potere economico, giuridico e politico degli Stati Uniti rispetto alle misure protettive europee: gli istituti finanziari europei, infatti, preferiscono evitare qualsiasi rischio di esclusione dal mercato in dollari.

A rafforzare questo timore sono le sanzioni esemplari imposte ad alcuni operatori europei, come accadde alla banca francese BNP Paribas multata nel 2014 per quasi 9 miliardi di dollari dalle autorità americane per aver violato la IEEPA e il Trading with the Enemy per le sue transazioni con Iran, Cuba e Sudan. Come prevedibile, nonostante la Blocking Statute, buona parte delle aziende europee hanno scelto di bloccare o ridurre i propri investimenti e progetti in Iran, dopo la reimposizione delle sanzioni unilaterali di Donald Trump nel 2018. L’azienda petrolifera francese Total si è ritirata da un importante progetto nel settore energetico iraniano temendo, in caso contrario, di perdere l’accesso al sistema finanziario e al mercato USA. Grandi case automobilistiche francesi come Renault e Peugeot, che avevano firmato importanti accordi in Iran dopo l’entrata in vigore del JCPOA nel 2015, dopo il 2018 hanno rallentato o bloccato i propri investimenti. L’Italia nel 2017 si era affermata come primo partner commerciale dell’Iran tra i paesi dell’UE, con un interscambio che era cresciuto del 97% rispetto al 2016, rilevante soprattutto, ma non solo, per le importazioni petrolifere: nello stesso anno l’Iran ha fornito circa il 14% delle importazioni petrolifere italiane, secondo soltanto all’Azerbaijan. Va notato, inoltre, che in seguito all’entrata in vigore della JCPOA, l’Italia e l’Iran avevano firmato un Memorandum of Understanding (MoU) per un totale stimato di quasi 20 miliardi di euro, coinvolgendo grandi gruppi fra cui Fincantieri, Saipem, Enel, Belleli (e molti altri), nonché altri progetti ed MoU che includevano accordi fra le Ferrovie dello Stato e le ferrovie iraniane. La reimposizione delle sanzioni statunitensi ha messo in difficoltà anche queste operazioni commerciali, rappresentando dunque un oggettivo danno economico per il nostro Paese.

Gli scarsi risultati raggiunti dalla Blocking Statute sono dovuti, in parte, al mancato coordinamento degli Stati nell’applicarla pienamente, oltre a una certa timidezza da parte di Bruxelles a intervenire in merito ad alcune debolezze strutturali dell’iniziativa. Considerando però l’ampio margine di miglioramento in iniziative che sono ancora in fase embrionale, sarebbe sbagliato  arrendersi a posizioni ciniche tali per cui alle politiche americane non si può fare altro che adeguarsi. L’elezione di Donald Trump dovrebbe spingere gli Stati europei a riaprire un dibattito che faceva pienamente parte del mainstream europeo, la cui concretizzazione era soltanto agli esordi. È anche in questo contesto che la vicenda del rapimento di Cecilia Sala e del rilascio di Abedini dovrebbe fungere da monito per chi ha a cuore la salvaguardia della sovranità italiana, che “appartiene al popolo” e che il popolo esercita in base ai limiti della Costituzione, non in base ai voleri imposti da imperi e potenze.

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CREDITI FOTO: Cecilia Sala

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