Le premesse della torsione autoritaria che diventerà legge qualora dovesse essere approvato il DDL Sicurezza stanno in un fenomeno che è in atto già da tempo e che la parte progressista della società ha fallito, a mio avviso, nel cogliere nella sua importanza e gravità. Si tratta del restringimento del perimetro del discorso pubblico e dell’applicazione del securitarismo anche alla manifestazione del pensiero; nella normalizzazione, che fa il paio con questo, dell’attacco ad hominem e squadristico contro chi la pensa diversamente; nel gatekeeping costante che certe persone, sui media come sui social, pensano di poter fare e si arrogano il diritto di fare su ciò che si può dire e non si può dire in base a criteri depoliticizzati come quelli identitaristici, tali per cui se uno si sente “minacciato” o “accusato” dall’espressione di istanze altrui questo sarebbe motivo valido per non dover esprimere quelle stesse istanze. Gli argomenti subdoli e velenosi sulla base dei quali nei campus universitari statunitensi qualsiasi espressione di vicinanza con il popolo palestinese viene repressa in quanto farebbe sentire “insicuri” gli studenti ebrei (anche quando proviene, come spesso accade, da altri studenti ebrei).
La libertà di critica è ormai talmente fuori moda che non viene più difesa da nessuno, pochi ne fanno una battaglia. Di certo nessuno a destra, perché chi si lamenta di continuo che “non si può più dire niente” non è la libertà di critica che sta difendendo, bensì quella di offesa. Di fronte alla legittima critica, anzi, quello che fa è proprio rivendicare la libertà della risposta offesa, vendicativa e squadristica.
Ma l’accoglimento della critica non è pane quotidiano neanche fra chi si autoattribuisce appartenenze progressiste, e questo è molto più grave, perché è da lì che questa battaglia dovrebbe essere condotta. L’esercizio di critica è la premessa di ogni libertà politica e democratica, senza quella tutto è criminalizzabile, il pensiero innanzitutto diventa criminalizzabile. Non si può lottare contro la repressione del dissenso da parte istituzionale, praticando poi quotidianamente lo zittimento di chi la pensa diversamente attraverso metodi al veleno nelle discussioni pubbliche. Anche in questo caso Israele funge da leva per saltare verso un sistema autoritario, il gatekeeping che i sionisti, da quelli più fanatici e squadristici a quelli più apparentemente critici pretendono di esercitare sul linguaggio per stabilire loro che cosa si può dire e cosa no, che cosa è offensivo e cosa no, che cosa è vero e cosa è falso, è un ingresso pratico nel sistema autoritario in sé e per sé.
Il caso della fake news sulla sinagoga di Bologna è esemplare in questo senso. Non soltanto perché è stato appurato il livello di menzogna diffuso da personalità politiche, religiose e dalla stampa, diffondendo la bufala di un assalto che non c’è mai stato. Ma perché persino dopo aver appurato che si trattava di una bufala costruita ad arte, non è stato mollato l’osso e a quel punto l’innocua scritta “Free Gaza”, fuori dal perimetro della sinagoga e accanto, ma distante di vari metri, alla porta di uno degli uffici secondari della stessa, su una via parallela, è stata tacciata da varie persone, anche nel campo progressista, di essere antisemita.
Non è certo la prima volta. È pienamente parte della logica dell’hasbara, la propaganda filoisraeliana, giocare con le parole in questo modo. Se dire “Free Gaza” è una minaccia antisemita, “Palestina libera” è una minaccia antisemita, la bandiera palestinese è una minaccia antisemita, la kefiah è una minaccia antisemita, “Dal fiume al mare” è una minaccia antisemita, dire che sugli stupri del 7 ottobre – a oggi non concretizzati in neanche un evento circostanziato che sia uno – si è fatto un mare di propaganda mostrificante dei palestinesi è “negazionismo antisemita”, qui emerge un tema unico, e non è l’antisemitismo: bensì è il fatto che qualcuno, in base solo e soltanto alla quota di potere di cui dispone, si arroga il diritto di decidere chi deve parlare e chi no, cosa può dire e cosa no, sottomettendo persino il pensiero a criteri di securitarismo, di natura puramente moralistica. Mettersi a guardia della libertà di parola perché non offenda, o non spaventi, chi vive nel territorio protetto dal cancello. Questo è ciò con cui ci scontriamo costantemente provando a continuare a parlare di Palestina, mentre nel frattempo tocca fare pure continuo lavoro di fact checking sulle bufale che gli stessi che fanno gatekeeping del discorso con una mano, fabbricano e lanciano con l’altra.
Tutto questo è già securitarismo, è già autoritarismo, è già repressione e criminalizzazione. Quello che succede nelle piazze è una estensione di quello che accade nel discorso pubblico. La violenza contro i manifestanti comincia dal fatto che quelle persone portano nel luogo della cittadinanza un pensiero dissonante rispetto a quello del potere. Un pensiero politico, che non si può risolvere a essere giudicato con criteri impolitici come “l’atto d’accusa” che i singoli individui ritengono di subire o no quando altri presentano istanze collettive, leggasi: la coda di paglia dell’individualismo antisociale. Eppure è con queste motivazioni che anche varie persone nel campo progressista hanno presentato le loro rimostranze contro una scritta sul muro. Un atto antisemita in quanto implicitamente accusatorio verso tutti gli ebrei. Free Gaza, però, prima ancora di non essere antisemita, non è accusatorio. Una istanza politica non è un’accusa, termine che nel lessico politico ha davvero poco senso, e tradisce anzi tutto intero il passaggio di forma mentis dalla dimensione politica delle istanze a quella, spoliticizzata, delle guerre culturali e del vittimismo identitario reciproco.
Il pensiero politico e la presentazione di istanze politiche riguardano il chiamare in causa le soggettività collettive per sollecitare prese di coscienza, e questo si può fare e di più, si è sempre fatto anche davanti ai luoghi di culto quando non direttamente dentro i luoghi di culto, e non c’è niente di offensivo in questo, perché i culti come ben sappiamo sono anche una questione politica. Quello di offesa non è un concetto arbitrario, sentirsi offesi da qualcosa non equivale necessariamente ad aver ricevuto offesa, affinché si sia ricevuta offesa le parole, le immagini e i gesti devono denigrare. “Free Gaza”, non denigra nessuno. Fermarsi al sentimento offeso che il singolo individuo può provare è indizio, ai miei occhi, di una grammatica che si sta perdendo nel senso comune man mano che si perdono tante acquisizioni del pensiero democratico: la grammatica del conflitto sociale, del conflitto come esercizio non violento della libertà di fare politica e di confrontare istanze collettive le une con le altre. Senza questa grammatica, però, non possiamo sperare di fermare la caduta nel sistema autoritario che stiamo vivendo. Per questo riprendere, da parte di tutti e ciascuno, l’esercizio impegnativo della critica è una cosa giusta da fare.
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CREDITI FOTO: @mazzettam2/X

Giornalista, fondatrice di Kritica.it. Puoi leggere suoi articoli e saggi su MicroMega, Gli Stati Generali, Africa ExPress. Ha vinto diversi premi fra cui il Premio Luchetta – Stampa italiana nel 2022.
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