Per il 2025, Israele ha stanziato una cifra ulteriore di 150 milioni di euro per la hasbara, la sua industria di propaganda. Soldi che si aggiungeranno a quelli già a budget, per alimentare la macchina narrativa attraverso la quale Israele spiega (hasbara viene tradotto in inglese, in modo non precisissimo, con la parola “spiegazione”) perché ha ragione di fare quello che fa.
Attraverso la hasbara, Israele riesce a far passare le sue costanti veline come se fossero notizie, oscurando e riuscendo a minimizzare la copertura dei quotidiani atti di barbarie che commette sui palestinesi, o facendo sì che vengano sempre contestualizzati come autodifesa necessaria e legittima o guerra di risposta al terrorismo. Avendo impedito ai giornalisti stranieri di entrare a Gaza per osservare con i propri occhi e riportare con le proprie mani, Israele si è assicurato il controllo di tutta la narrazione delle vicende nella Striscia. I suoi unici antagonisti rimasti sono i giornalisti palestinesi, non a caso fra i bersagli designati dell’esercito, che dall’8 ottobre 2023 a oggi ne ha già uccisi oltre 190, senza contare gli assassinii dei loro parenti e persone care.
Laddove l’opinione pubblica che si forma dal basso è ovunque nel mondo occidentale largamente favorevole a un cessate il fuoco in Palestina e critica verso l’operato israeliano, per i sostenitori del genocidio – e del complessivo impianto suprematista e colonialista di Israele contro i palestinesi e i popoli arabi di tutta l’area – la reiterazione di un discorso di legittimazione e giustificazione si fa ogni giorno più importante, quasi obbligata.
Quel che è peggio tuttavia, della hasbara, è la grande energia che i propagandisti filosionisti dedicano ad attaccare chi prova a informare ma anche a esprimere le proprie posizioni secondo i criteri della verità dei fatti, dell’indipendenza di pensiero e dell’umanità di sguardo. Israele conta sull’alleanza di professionisti dei media, personaggi politici e figure note, delle associazioni come l’AIPAC americana o delle comunità fedeli allo Stato ebraico, come è il caso della Comunità ebraica italiana, che si dedica costantemente a infangare la reputazione di giornalisti o personalità sgradite, e ad invocare censure e reprimende nei loro confronti.
Di tutte, le voci palestinesi sono in assoluto le più censurate e le più infangate. Il modo in cui i giornalisti palestinesi o arabi sono trattati dai media occidentali è un’estensione dell’uccisione sistematica che subiscono a Gaza e in Cisgiordania, dove persino l’ANP si è messa ora a fare il lavoro sporco di attacco all’informazione per conto di Israele, arrivando addirittura ad assassinare la giornalista ventiduenne Shatha al-Sabbagh e a sospendere le trasmissioni di Al Jazeera nei territori palestinesi, dopo che già Israele aveva assaltato e chiuso gli uffici dell’emittente a Ramallah, mesi fa.
Un’inchiesta del giornalista Owen Jones nel Regno Unito ha svelato, per esempio, il clima di tensione e difficoltà all’interno della BBC britannica, il broadcast televisivo e informativo più visto al mondo. 13 giornalisti hanno parlato con Jones raccontando il filtro esercitato da uno dei redattori della testata, Raffi Berg, in forze alla divisione Medio Oriente delle news online, il cui lavoro, hanno dichiarato, consiste nell’”annacquare tutto ciò che contenga critiche nei confronti di Israele”. A giugno scorso oltre 100 giornalisti della rete hanno manifestato disappunto, con una lettera aperta, per la copertura irrispettosa degli standard del giornalismo che la BBC stava offrendo delle vicende palestinesi. La loro protesta non ha sortito il minimo effetto.
La BBC non è certo un caso isolato. I giornali tradizionalmente progressisti della anglosfera, dal Guardian al New York Times, a tante televisioni e canali statunitensi, hanno visto in questi mesi centellinare, quando non sparire del tutto, la presenza di giornalisti e ospiti di origine palestinese e sono stati spesso contestati per aver offerto una visione faziosa delle vicende in corso. Un collettivo di giornalisti, scrittori e studiosi statunitensi ha fondato il giornale di protesta “New York War Crimes” proprio per denunciare in modo forte il modo in cui il New York Times copre le notizie su Israele. L’immagine di copertina dell’articolo che stai leggendo è presa dal loro primo numero, uscito nel novembre 2023.
Le lamentele nel mondo laburista britannico per il modo in cui riportando le notizie coprono responsabilità e nefandezze israeliane vanno avanti, d’altro canto, da anni. Basta leggere le tante notizie scritte nel tempo da Jewish Voice for Labour, una comunità di ebrei laburisti antisionisti “iscritti, ex iscritti o mai stati iscritti al partito laburista”, al cui interno per anni ha tenuto banco la guerra contro Jeremy Corbin accusato di antisemitismo e ostracizzato nel partito all’interno del quale godeva di una forte leadership. Keir Starmer, suo successore alla guida dei laburisti e oggi Primo ministro, di contro rappresenta un fedele esecutore di tutti gli interessi israeliani, insieme al suo governo. Almeno metà del cosiddetto gabinetto di governo britannico ha ricevuto infatti copiosi finanziamenti da parte di associazioni filosioniste, come è stato svelato da alcuni media indipendenti. Negli Stati Uniti invece, dove le leggi impongono al personale politico la massima trasparenza riguardo ai fondi che ricevono e da parte di chi, la compravendita da parte dell’associazione sionista AIPAC avviene direttamente alla luce del sole. L’account AIPAC Tracker documenta da tempo la presenza pervasiva di AIPAC in ogni competizione politica statunitense, sia essa locale o nazionale. E AIPAC stesso, all’indomani delle elezioni presidenziali di novembre, ha dichiarato con orgoglio di aver finanziato non meno di 318 nuovi deputati del Congresso americano su 535, per una spesa complessiva di oltre 100 milioni di dollari.
Anche i social network sono parte integrante della rete dell’hasbara. Su X, persino Jorge Bergoglio è stato oscurato: i suoi post critici nei confronti di Israele hanno raggiunto a malapena l’1% del pubblico dei suoi follower. Da oltre un anno numerose associazioni hanno svelato come Meta, l’azienda proprietaria di Facebook, Instagram e Whatsapp, applichi un oscuramento sistematico dei contenuti di provenienza palestinese. Su Instagram sono stati bannati giornalisti palestinesi con milioni di follower, come per esempio il giornalista di Al Jazeera Anas al-Sharif. Nel corso del tempo, Meta – che ha da pochissimo annunciato l’ingresso di John Elkann nel Consiglio d’amministrazione – ha promosso numerosi ufficiali israeliani a ruoli apicali, e nei mesi scorsi ha assunto Jordana Cutler, ex consigliera di Netanyahu e del Likud, nel ruolo di responsabile della moderazione dei contenuti sulle piattaforme social relativi al Medio Oriente. Cutler non si è fatta attendere, e ha immediatamente oscurato i contenuti pubblicati da realtà solidali con il popolo palestinese, fra cui la rete “Students for Justice in Palestine”.
E in Italia? In Italia siamo immersi nel solito clima provinciale, parolaio e inconsistente, cerchiobottista quando va bene, palesemente arruolato nella maggiora parte dei casi; nessuna specificità di rilievo, se non che anche le pochissime voci palestinesi di cui la nostra televisione godeva, come quella della giornalista Rula Jebreal, sono costantemente attaccate e infangate da esponenti dell’hasbara. Alcuni profili di singole personalità, specialmente sui social, sono particolarmente aggressivi e praticano continui atti di squadrismo mediatico provando a zittire le – poche – voci critiche che si levano chiare. Chi scrive ne ha subito direttamente le angherie.
Il Corriere della Sera ha toccato di recente il fondo quando ha pubblicato un “dossier” dell’associazione SetteOttobre, una realtà dedita alla propaganda più aggressiva contro qualsiasi voce critica nei confronti dell’operato di Israele, come la relatrice speciale ONU dai Territori Occupati Francesca Albanese, sempre all’insegna della “lotta all’antisemitismo”, qualificando tuttavia come antisemitismo, come si fa nel sedicente dossier, qualsiasi opinione solidale con il popolo palestinese e di ostilità verso Israele. Questo è uno dei topoi più sfruttati e velenosi della hasbara: ridurre ad antisemitismo ogni forma di critica, anche blanda, verso l’operato di uno Stato, quindi verso una entità politica, non razziale. Ma tant’è: autodefinendosi “Stato ebraico”, Israele, con tutta la sua macchina propagandistica, annulla con intenzione e dolo questa differenza, fondamentale per qualsiasi assetto democratico. Lo fa senza che questa sovrapposizione, che dovrebbe mettere in serio allarme qualsiasi sincero democratico, venga mai messa sotto la lente da quella che il giornalista Raffaele Oriani ha definito la “scorta mediatica” al genocidio: il giornalismo mainstream sceglie attentamente persino le singole parole affinché possano costantemente prevalere, in modo più o meno sfacciato o viceversa subdolo, da un lato il punto di vista israeliano nel racconto delle vicende di Gaza, dall’altro la disumanizzazione dei palestinesi. Oriani si è chiamato fuori da tutto ciò smettendo di collaborare con Repubblica, di cui era una firma assidua da tempo. Ma le personalità e le testate che nel nostro Paese abbiano preso una posizione trasparente in questo senso sono un numero infimo.
In televisione, fa eccezione Report, l’unica trasmissione italiana a non aver annacquato l’informazione con imbarazzanti propagandismi e ad aver detto qualcosa di davvero interessante su Israele e sulla guerra genocidiaria di Israele contro i palestinesi. Nella sua puntata del 3 novembre 2024, Report ha svelato innanzitutto le commistioni e complicità della comunità mondiale degli Stati con Israele sul piano degli affari militari: Israele è un grandissimo esportatore di tecnologia digitale militare, laddove invece riceve aiuti indispensabili, prima di tutto dagli Stati Uniti, per quanto riguarda l’industria militare pesante. La redazione è stata prontamente attaccata dall’UCEI (Unione delle comunità ebraiche italiane), e ora si trova attaccata anche dal governo. I partiti di maggioranza hanno di recente chiesto alla RAI, infatti, di privare la trasmissione della manleva, la tutela legale che solleva i giornalisti da rischi penali ed economici. La richiesta sembra sia arrivata dopo aver coperto le vicende che hanno interessato l’ex ministro Sangiuliano, ma certamente, se mai dovesse divenire realtà questa richiesta, colpirebbe la trasmissione su tutti i temi più delicati, in primis la copertura del genocidio israeliano e della politica israeliana.
Quel che infatti della hasbara è in assoluto più grave è che la propaganda copiosamente finanziata e sostenuta da Israele stesso e dai suoi alleati non si limita a sovrapporsi al giornalismo per confondere le acque o macchiare la verità con la post-verità, come da copione della rete internazionale trumpiana-bannoniana – di cui Netanyahu e Israele tutto, radicalizzato ormai saldamente come un Paese suprematista e razzista fino alla ferocia assassina, rappresentano una branca fondamentale –; la hasbara si insinua nei governi e nelle leggi, allo scopo di perseguitare i giornalisti. Di nuovo, è in Gran Bretagna che questa tendenza si sta manifestando ai livelli più preoccupanti. Attraverso una “legge antiterrorismo” draconiana e autoritaria, tanto quanto può esserlo la legge russa sugli agenti stranieri, già mesi fa sono stati arrestati attivisti e giornalisti schierati con il popolo palestinese; fra questi il giornalista Richard Medhurst, arrestato ad agosto sulla base della Section 12 del Terrorist Act inglese, in base al quale rappresenta un crimine anche esprimere opinioni in favore di un’organizzazione considerata terroristica (“proscribed organisation”). In seguito all’arresto, dopo averlo rilasciato le autorità hanno intimato a Medhurst di svelare le sue fonti consegnando le password dei suoi strumenti di lavoro. Il giornalista si è opposto, e ora, come ha scritto sul Fatto Quotidiano la giornalista Stefania Maurizi, “Le autorità inglesi potrebbero anche ricorrere alla corte e ottenere una sentenza del giudice che ordini al reporter di consegnarle. Se Richard Medhurst non lo farà, rischierà tra i due e i cinque anni di carcere.” Il giornalismo investigativo indipendente si basa per intero sulla protezione delle fonti. Obbligare un reporter a rivelarne l’identità significa metterle a rischio, compreso mettere a rischio la loro stessa vita; e quindi far sì che le persone con qualcosa da rivelare non possano mai più fidarsi dei giornalisti. Un colpo di grazia per la possibilità di condurre inchieste alla ricerca della verità dei fatti. È così che la hasbara vince, così che la democrazia muore.
CREDITI FOTO: New York War Crimes
Una versione più breve di questo articolo è stata pubblicata il 4 gennaio 2025 su Africa Express, la testata online diretta dal giornalista Massimo Alberizzi, con la quale abbiamo piacere di collaborare.

Giornalista, fondatrice di Kritica.it. Puoi leggere suoi articoli e saggi su MicroMega, Gli Stati Generali, Africa ExPress. Ha vinto diversi premi fra cui il Premio Luchetta – Stampa italiana nel 2022.
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