Sono tornata in Siria a dicembre 2024 per Rai News 24, la testata per la quale lavoro, dopo tanti anni. Ho realizzato alcuni reportage che sono andati in onda, ma onestamente, non sono ancora riuscita a darmi una risposta definitiva su quello che ho visto. Nessuno può darsi una risposta, al momento, sul futuro della Siria. Ma anche il presente è pieno di incognite. Alcune delle sensazioni che ho raccolto sono acquarelli, immagini, incontri. La prima percezione che ho avuto tornando in Siria è stata sicuramente quella di una Siria diversa da quella che avevo conosciuto. Una Siria molto più povera, e questa caratteristica ha avuto un grande impatto. Chi ha seguito le vicende di Siria in questi anni sa benissimo quanto la lira siriana, abbia perso enormemente di valore. Si vedevano persone andare in giro con bustoni pieni di lire siriane, bustoni della spesa carichi di contanti. Non ricordavo in alcun modo scene simili, nei miei viaggi precedenti. Ovviamente tutto si pagava esclusivamente in contanti. La povertà si palpava anche nel cibo, nel modo di vestire delle persone. Ecco perciò la prima cosa da dire su quanto ho trovato: dopo 14 anni di guerra civile, di repressione, di ingerenze straniere, ho trovato un Paese veramente impoverito. Ma al tempo stesso, ho trovato un Paese in cui finalmente si respirava. Un senso di sollievo e di ossigeno, al netto di tutte le preoccupazioni, a mio avviso anche ingigantite in questi mesi dalla stampa occidentale. Nelle interviste che molti reporter stranieri hanno fatto ai leader siriani, in particolare ad al-Jolani – o Aḥmad al-Shara come si chiama adesso – hanno avuto grande spazio le preoccupazioni per le minoranze, per i diritti delle donne. Temi per i quali ho visto la comunità internazionale e anche i giornalisti, molto preoccupati, continuare a chiedere rassicurazione su questo. E sicuramente è un fronte su cui bisognerà tenere gli occhi aperti. Ma tra i siriani questa preoccupazione si avvertiva molto meno. Quello che ho osservato unirli tutti, di qualsiasi confessione religiosa, gruppo etnico o città di provenienza, era la gioia per la caduta del dittatore. E questo aspetto davvero non faceva distinzione. Non ho trovato una sola persona che non fosse felice per la caduta di Assad. La fine del regime ha donato un forte senso di libertà. Persone che rimanevano per strada fino a tardi, a molto tardi, clacson che suonavano in continuazione, canti rivoluzionari che risuonavano a qualsiasi ora del giorno e della notte; lunghissime file di auto con tutti i cofani ridipinti, con la bandiera a tre stelle su ogni cofano. La Siria che io ricordavo era disseminata delle gigantografie di Bashar al-Assad o di Hafiz al-Assad, erano ovunque, e a ogni angolo trovavi la bandiera del regime, quella a due stelle; era dipinta ovunque. Tutto questo adesso non c’era più. I giornali lo hanno raccontato: le statue sono state buttate a terra, le locandine strappate, date alle fiamme. A Damasco vedevi le saracinesche dei negozi, alcune delle quali dipinte con la bandiera a due stelle, che durante la notte venivano tutte ridipinte per farli diventare bianche o per mettere la bandiera a tre stelle. Questo senso di liberazione l’ho trovato dappertutto ed è stato commovente. Ricordo invece la prima volta che andai in Siria, dappertutto c’era paura. Le persone mi dicevano “non dire che sei una giornalista, non far vedere che sei straniera, stai attenta perché ci sono spie ovunque. Qui anche i muri parlano”. Non potevi dire nulla, non potevi parlare di nulla, non riuscivi ad avere conversazioni. Parlare con le persone di temi riguardanti la politica, più o meno legati alla coscienza civile collettiva, era assolutamente proibito. Adesso tutti parlavano di politica; tutti parlavano della Siria, e di come sarebbe diventata. Quindi c’era un’atmosfera completamente diversa. E questo mi ha fatto enorme piacere. Ora, va riconosciuto che i timori non mancano. I media occidentali li hanno amplificati, tuttavia non mancano di certo. Non posso dire che non mi siano stati espressi anche timori da alcune persone che ho incontrato. Sono andata a rintracciare le persone che mi ospitavano a Damasco quando avevo trascorso lì qualche mese per studiare l’arabo. Mi sono messa a girare nei vicoli intorno alla moschea di Bab Touma, e riconoscendoli ho trovato l’appartamento dove dormivo. All’epoca era una casa che ospitava tutti stranieri. Oggi era completamente abbandonata. Sono riuscita a rintracciare i proprietari e farmi capire con il mio arabo tuttora abbastanza stentato, e mi hanno aperto la porta e raccontato che a causa della guerra non c’erano più stati studenti stranieri, e perciò loro non avevano più alcuna fonte di reddito. Più volte mi hanno chiesto se volessi fermarmi di nuovo, insistendo sul fatto che loro erano cristiani, che la loro fosse una casa cristiana. Mi hanno espresso preoccupazioni, dubbi, chiedendomi se avessi potuto intervistare i componenti del nuovo governo e se fossi in grado di dire quale sarebbe stato il destino per i cristiani, a partire da ora. Anche il fixer che era con me, la figura che affianca noi giornalisti quando andiamo in viaggio, e ci aiuta a organizzare interviste o con le traduzioni, era abbastanza spaventato, perché di etnia alawita – la stessa della famiglia Assad, ndr – e timoroso di ciò che i sunniti fondamentalisti avrebbero potuto fare a persone come lui, e più volte mi ha espresso questa preoccupazione.
Però, per quanti timori possano essermi stati espressi, non posso non riconoscere che fra la maggior parte delle persone che ho incontrato non prevalevano le preoccupazioni. A Idlib ho incontrato i combattenti di HTS, nella regione che è sotto il loro controllo da diversi anni ormai. E alcuni di loro, in effetti, hanno avuto parole molto violente contro gli alawiti, in particolare, hanno detto “gli alawiti sono dei maiali”. Però, loro stessi, innanzitutto tendevano a sottolineare che il loro intento era portare nel resto della Siria la vita tutto sommato “migliore”, i servizi di cui la regione di Idlib aveva goduto negli ultimi anni rispetto al resto del Paese che era controllato dal regime, e dove una serie di servizi per le persone erano del tutto assenti. Quanto sarà facile per loro replicare nel resto della Siria il modello di Idlib, non lo so, visto che nel resto della Siria sono presenti tante minoranze, e anche molti più laici. A Idlib la sharia, seppure in modo piuttosto elastico, vige. Quando chiedevo loro cosa pensassero riguardo alla possibilità di portare altrove il loro modello, hanno risposto sempre dicendo “noi non vogliamo avere problemi con nessun’altra religione, con nessuna minoranza, vogliamo una Siria per tutti”, e questo è quello che anche al-Jolani, presidente de facto della Siria, sta dicendo continuamente. Poi, gli scontri ci sono; sono stata nei pressi di Tartus, in un villaggio in cui le forze di HTS stavano tentando di arrestare uno degli esponenti del regime, che aveva ordinato centinaia di torture a Sendnaya. Le forze di HTS erano intenzionalmente andate a cercare di prenderlo, scontrandosi con tutta una serie di suoi protettori, e ne era nato uno scontro, alla fine del quale lo hanno catturato. Questi episodi ci sono. Tuttavia, senza pretendere di poter fare previsioni, la sensazione che ho avuto nel complesso è stata più ottimistica che pessimistica. Ho visto un popolo e ho riconosciuto un popolo che, dopo 14 anni come quelli che ha vissuto, non mi pare intenzionato a consentire ancora altre tragedie, ancora altro sangue. In questo senso, mi sento fiduciosa. Confido, come ho sempre fatto, nel popolo siriano. Come ho sempre scritto, anche nei miei libri, in cuor mio ero sicura che prima o poi il regime di Bashar al-Assad sarebbe caduto. Non ho mai creduto che sarebbe rimasto in piedi per sempre, ed era evidente che si reggeva soltanto grazie a fattori esterni; ma nel cuore dei siriani, il regime di Assad era già caduto dall’inizio della rivoluzione. È stata una emozione potente tornare nel monastero di Mar Musa, per parlare con chi conosceva padre Paolo Dall’Oglio, che io stessa avevo avuto l’onore di conoscere a Mar Musa. È stato bello provare a ipotizzare con gli ospiti della comunità come padre Paolo starebbe vivendo questo momento, oggi, cosa starebbe facendo. Ho pianto percorrendo i gradini di Mar Musa, e ho pianto entrando nel mercato di Aleppo, in larga parte distrutto, una scena davvero triste. E infine, è stato importante intervistare il fratello di Mazen Hamada, l’attivista per la rivoluzione che era scappato in Europa per denunciare i crimini del regime ed era stato poi riattirato in Siria con l’inganno, riportato in carcere poche settimane della caduta di Assad. Mazen Hamada è stato ucciso una decina di giorni prima che il regime cadesse. Suo fratello, Fawzi, mi ha raccontato tutte le vicissitudini vissute dall’intera famiglia, la storia di una famiglia distrutta dal regime. Ma nel cuore mi rimarranno le sue parole di speranza.
Questo testo è la trascrizione dell’intervento di Laura Tangherlini in occasione dell’incontro “Siria e Vicino Oriente: la Storia si riapre?” organizzato da Kritica venerdì 17 gennaio 2025, gentilmente ospitato nei locali di Sinistra Italiana – Testaccio. Trascrizione non rivista dall’autrice.
CREDITI FOTO: Marc Veraart

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