Se è quantomeno rischioso far scrivere, o riscrivere, la storia ai vincitori, lo è ancora di più quando quei vincitori sono terrorizzati dall’idea di finire tra i perdenti. La risoluzione approvata la settimana scorsa dal Parlamento Europeo, che condanna la disinformazione e la manipolazione storica da parte della Russia, si inserisce in un clima in cui ciascun impero sta consolidando e stringendo a sé le proprie sfere di influenza, con l’Europa che rischia di finire stritolata. È un atto significativo per denunciare le strategie propagandistiche del Cremlino, utilizzate per giustificare l’aggressione all’Ucraina e reprimere voci critiche, come intellettuali pacifisti e ONG. Il problema è che mozioni del genere evidenziano un trend preoccupante: censurare il passato con una narrazione monolitica, suggerita da attori geopolitici che hanno tutto l’interesse a spingere verso visioni semplificatorie.

Ripercorriamo la vicenda del documento, che s’intitola: «Disinformazione e falsificazione della storia da parte della Russia per giustificare la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina». Si impegna a condannare la Russia che non riconosce «l’imperdonabile ruolo svolto inizialmente dall’Unione Sovietica nelle prime fasi della Seconda guerra mondiale, ad esempio con il trattato di non aggressione del 1939 tra la Germania nazista e l’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche e i suoi protocolli segreti, comunemente denominato patto Molotov-Ribbentrop del 1939». Inoltre, si legge nella mozione, «l’attuale regime russo ha strumentalizzato la storia e ha creato un culto della vittoria intorno alla Seconda guerra mondiale al fine di mobilitare ideologicamente i propri cittadini e manipolarli affinché sostengano una guerra di aggressione illegale».

Ma per colpire l’appropriazione dei simboli sovietici da parte di Putin e il loro utilizzo per mobilitare i cittadini russi, il Parlamento UE si è spinto oltre: ha messo nero su bianco un inutile paternalismo, invitando i cittadini a «valutare criticamente le informazioni» che «riguardano narrazioni legate alla Russia», utilizzando «fonti diverse e affidabili». Ha ritenuto meritevole di ufficializzazione la parola «russismo», per creare una consonanza con i grandi totalitarismi del passato e rendere inammissibile qualunque diplomazia, nonostante il termine nasca negli ambienti militari ucraini e non sia altro che marketing di guerra, senza alcuna base storica. Soprattutto, ha certificato l’equivalenza tra simbologia nazista e bandiera comunista, invitando gli europei a rimuovere entrambe dagli spazi pubblici.

Troppo per gli europarlamentari del PD, che in uno scatto d’orgoglio hanno detto no e disertato il voto, che svilisce le foto e i ricordi presenti in buona parte delle sezioni di partito in Italia. La risoluzione è passata comunque, grazie anche al sì dell’eurogruppo Socialisti e Democratici, che ha votato come tutti i gruppi che sostengono la Commissione Von der Leyen, e come le delegazioni di Fratelli d’Italia e di Forza Italia. Eccezione nel centro-sinistra la vicepresidente del Parlamento Europeo, Pina Picierno, che da mesi sembra focalizzata soprattutto sulla cancellazione di eventi filorussi nei più remoti angoli della Penisola. Assente per ragioni di salute, ha dichiarato che avrebbe votato a favore. Poco dopo, ha anche annunciato anche il suo ingresso in una neonata commissione incaricata di combattere ciò che descrive come «interferenze straniere» e «disinformazione», ribattezzata «Scudo europeo per la democrazia». Un’iniziativa che si presenta come salvaguardia per i processi democratici, ma che, visti i suoi partecipanti e il clima in cui nasce, sembra inserirsi in una dinamica di censura e di eccessivo zelo atlantista.

Parliamo di un mondo dove negli anni ’90 è emerso un nuovo contratto sociale che rifletteva la nuova realtà sociopolitica: meno Stato e più individuo; meno aiuti e protezioni ma, si sperava, meno possibilità di finire reclutati per guerre ideologiche. In questa dinamica, il mito dell’anticorruzione e della «società civile» è stato spesso usato per giustificare politiche neoliberiste che hanno favorito gli interessi del capitale internazionale e le privatizzazioni. Il passato sovietico è diventato la scusa pronta per giustificare i limiti e i fallimenti della classe dirigente liberale post -Muro. Per ironia della sorte, come ha scritto di recente lo storico ucraino Volodymyr Ishchenko, lo smantellamento delle imprese statali ha compromesso gravemente il complesso militare-industriale di epoca sovietica. Questo ha ridotto non solo l’Ucraina ma anche buona parte dell’Unione Europea ex-socialista alle complete dipendenze di una NATO sempre più a trazione statunitense, senza per questo garantire una piattaforma di convivenza continentale.

Manifesto storico del Partito Comunista Italiano

Ma è anche un mondo dove, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, molti intellettuali liberali di centro hanno fatto enormi sforzi per mettere il comunismo tutto sullo stesso piano del nazismo, arrivando a cancellare (soprattutto in Ucraina e nei Paesi Baltici) le strade che commemoravano l’Armata Rossa e i partigiani sovietici. Queste stesse élite che sostengono una politica di memoria etno-nazionalista si sono prestate alla glorificazione e all’imbiancamento dei collaborazionisti nazisti ucraini in chiave anti russa, e alla minimizzazione dell’ascesa della destra estrema anti -immigrati in Europa dell’Est, come si vede dalla popolarità di un portale che fa disinformazione razzista come Visegrad24 tra tanti giornalisti «moderati».

È chiaro che il centrosinistra europeo è sempre più diviso, di fronte alle sfide del declino europeo e delle democrazie liberali, incapaci di riformarsi se non negando, in parte o in tutto, sé stesse. La mozione è stata spinta da un nucleo composto per lo più da parlamentari centro-liberali polacchi e baltici e dai socialisti moderati di Raphael Glucksmann (che hanno appena spaccato il Fronte popolare francese); formazioni che hanno sempre meno in comune con i socialisti europei e spagnoli che vorrebbero un approccio più conciliatorio in Europa dell’Est e il rispetto del diritto internazionale non solo in Ucraina, ma anche in Medio Oriente.

In una nuova fase di arroccamento occidentalista, con la Russia che avanza inesorabile nel Donbass, la Cina che si dimostra formidabile avversaria tecnologica e gli Stati Uniti di Trump ad accorciare le catene che tengono a bada gli alleati, la complessità della memoria storica continentale rischia di essere travolta dalle pressioni antisocialiste più rigide, specialmente da quelle generate nel mondo post-sovietico.

In questa dinamica, la risoluzione approvata dal Parlamento UE rischia di favorire ideologie nazionaliste e scioviniste in alcune aree dell’Europa orientale che hanno tutto l’interesse a trascinare il resto dell’Unione in un’avventura. Un esempio clamoroso di questa strumentalizzazione della storia a uso e consumo del presente è arrivato mesi fa da un incredibile post del ministero degli Esteri estone. L’Unione Sovietica che 80 anni fa liberava l’Estonia occupata dai nazisti (con la collaborazione di numerosi estoni nell’Armata Rossa) diventava un’immagine in bianco e nero della Russia che bombardava l’Estonia nel 1941, senza spiegare su chi piovessero quelle bombe, messa sopra a un’altra immagine, a colori, dei bombardamenti della guerra di Putin odierna. Il nazismo, insomma, era ed è quello russo. Certo, la guerra è sempre tragica, e i morti sono morti. Ma in questo modo la propaganda riscrive la Storia reinventando il senso degli eventi nella loro causalità, e lo fa con un atto d’imperio. Come reagiremmo se una Marine Le Pen al governo, un giorno, rinfacciasse agli Stati Uniti lo sbarco in Normandia?

La decisione di includere simboli nazisti e comunisti nello stesso divieto, e soprattutto la sfacciataggine di lasciare che sia una mozione approvata all’insaputa di gran parte dei cittadini a risolvere una questione storica così enorme, sottolinea il rischio di una cancel culture nichilista, che alimenterà sempre più divisioni senza, al contempo, affrontare minimamente il problema dell’autonomia strategica dell’UE, o dello svuotamento della forza statale in Paesi che vorrebbero fronteggiare con l’alleato Nato una Russia sempre più energizzata dal keynesismo di guerra.

La domanda chiave è se queste scelte possano avere non solo conseguenze teoriche ma concrete, come la delegittimazione di partiti o associazioni politiche in paesi come Romania, Moldavia, o Georgia, al momento visti come limes estremo dell’Ue: che succederà se il nuovo consenso in assetto di guerra considererà «disinformazione» una qualsiasi postura disfattista sulla strategia euro-atlantica o compromissoria col passato socialista? Se la complessità storica sarà maciullata dalle contingenze geopolitiche, come reagiranno milioni di cittadini democratici insofferenti a un’Europa sempre più vassallo statunitense? Quale conseguenze ci potranno essere sulla legittimazione del voto di protesta, o sui criteri che ne potrebbero determinare l’annullamento?

Forse varrebbe la pena per i superficiali censori del passato tenere a mente non tanto la sacralità dello stesso, quanto i rischi che correrà l’Europa se sacrificherà il suo pluralismo interno per assecondare un egemone americano sempre più inflessibile. La piena condanna di Putin, e la necessità di evitare una partizione dell’Europa, non significano riscrivere il Novecento a colpi di maggioranze burocratiche.

CREDITI FOTO: Enciclopedia dell’Olocausto

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