[Questo articolo contiene anticipazioni sulla trama del film. Se sei fra quelle persone che amano vederli solo a scatola chiusa, torna a leggerla dopo che lo avrai visto al cinema. Però corri al cinema, non te lo far scappare!]
Di tutte le dittature fasciste che hanno distrutto una generazione intera di cittadini, giovani e meno giovani, militanti di sinistra e socialisti in America Latina, inspiegabilmente quella che si impose sul Brasile negli anni dal 1964 al 1985 è una delle meno discusse e conosciute nel nostro Paese, sebbene l’Italia abbia ospitato per qualche tempo personalità del calibro di Chico Buarque, e nonostante la grande popolarità del movimento musicale brasiliano che Caetano Veloso, Gilberto Gil, lo stesso Buarque insieme a molti altri artisti e artiste formarono come espressione di dissidenza e impegno politico, e che ha donato al tempo stesso capolavori leggendari dell’arte musicale al mondo tutto.
Di questi capolavori, dello spirito e dell’energia di tutte queste personalità, la cui musica batte il ritmo di una colonna sonora struggente e vitale, è intriso il bellissimo Ainda Estou Aqui di Walter Salles: uno spaccato della realtà sotto la dittatura militare brasiliana tratto dal romanzo omonimo di Marcelo Rubens Paiva (edito in Italia da La Nuova Frontiera, traduzione di Marta Silvetti), figlio di Eunice e Rubens Paiva, la cui storia il figlio racconta in un’autobiografia di famiglia che diventa testimonianza di un’epoca intera, dei tratti caratterizzanti un regime che fu fra i più feroci del Novecento nei confronti dei dissidenti politici. Presentato in anteprima all’ultima Mostra internazionale del cinema di Venezia, dove ha vinto il premio per la miglior sceneggiatura, è ora in nomination agli Oscar 2025 come Miglior film, Miglior film internazionale e per l’interpretazione di Fernanda Torres come miglior attrice protagonista, dopo che già il Golden Globe 2025 in questa categoria è andato a lei (e avrebbe francamente meritato anche la Coppa Volpi a Venezia, vinta invece da Nicole Kidman per il dimenticabile Babygirl).

E il film è lei. L’interpretazione misurata al millimetro, con ogni muscolo del viso, dell’attrice più amata in Brasile – insieme a sua madre, Fernanda Montenegro, che interpreta lo stesso personaggio della figlia negli anni dell’anzianità – giganteggia in questa pellicola e la regge quasi per intero, insieme al carisma del co-protagonista Selton Mello nella parte di Rubens Paiva, il deputato laburista che nel 1971, negli anni più bui della dittatura militare brasiliana, poco dopo che la Costituzione era stata riscritta in senso ancora più brutalmente autoritario e le persecuzioni contro i dissidenti erano all’ordine del giorno, fu sequestrato, mentre si trovava in casa, da oscure figure del regime, per non fare mai più ritorno.

Mentre il libro di Marcelo Rubens Paiva comincia dalla fine, e giustappone fra loro tanti fili della memoria di una famiglia intera attraversata nel corso dei decenni da molteplici tragedie e traumi, il film di Walter Salles – che fu amico d’infanzia di Marcelo e delle sue sorelle – segue un percorso cronologicamente lineare e comincia nel 1970 a Rio de Janeiro, dove la famiglia Paiva viveva, in una casa proprio di fronte alla spiaggia, una vita gioiosa e serena, pur nelle preoccupazioni per la sicurezza della primogenita, Vera detta Veroca, che frequenta gruppi di persone invisi al regime. I genitori decidono di mandarla a studiare a Londra per proteggerla dal pericolo di essere arrestata. Ma poco dopo, ad essere sequestrato sarà invece Rubens, insieme ad Eunice e a un’altra figlia. La giovane rimarrà incappucciata nel centro di detenzione per un giorno; Eunice per dodici giorni, durante i quali ascolterà le grida di dolore, la tortura, la violenza perpetrata dai militari sui detenuti. Di Rubens non si saprà più nulla. E, per anni, Eunice cercherà di fare giustizia per il marito, provando a tenere unita la famiglia. Studierà legge e diventerà un famoso avvocato per i diritti umani, battendosi perché le sorti del marito e degli altri dissidenti divengano finalmente chiare, per i diritti degli indigeni e diventando una figura di spicco del Brasile democratico. Il film si sofferma sul suo percorso umano, sulla sua paura e sulla reazione coraggiosa alla paura; una paura sottile e penetrante, quella che il regime militare incuteva sulla popolazione, sui dissidenti, su chi veniva portato nelle carceri. Le scene all’interno del centro di detenzione sono spaventose nella loro cruda essenzialità: non vediamo violenza con gli occhi, ma la percepiamo con l’assieme dei sensi, la sentiamo come la sentì Eunice, sulla pelle, non lavabile facilmente con una doccia. La vediamo nel suo volto, nel suo sguardo, nei suoi movimenti; e vediamo cosa può fare una dittatura nella vita delle famiglie, come può spegnere l’allegria e trasformarla in angoscia, come può piegare la spensieratezza e costringere a fare le proprie scelte di vita. La vediamo nella casa della famiglia Paiva, traboccante di vitalità e poi più scura, silenziosa, occupata dai fantasmi di un potere che accusa e condanna, ma non si dichiara. Agisce nella penombra. Fino a quando Eunice non annuncia ai figli che bisogna andare via, lasciare Rio. Trasferirsi a São Paulo, e cominciare una nuova vita, in cui l’amato Rubens non ci sarà; ma in cui tutto continuerà a essere in suo nome, nel segno della dignità e della ricerca di verità e giustizia.

Ciò che Salles sceglie di mostrare, come il regista ha dichiarato anche esplicitamente, è un memento: serve a ricordarsi ciò che è stato e ciò che potrà essere di nuovo. Come la democrazia possa essere in ogni momento storico facilmente rovesciata quando gli interessi imperialistici così ritengono convenga, come fu il caso di Brasile, Cile, Argentina, Uruguay in quegli anni. Serve tuttavia anche a ricordarsi ciò che oggi, per noi, qui, non è: non è quel clima di terrore diffuso e di caccia diffusa al dissidente. Non è quella dittatura brutale, quell’odio sistematico e organizzato che caratterizzò in modo specifico le dittature anticomuniste latino americane, ma che ha caratterizzato anche dittature a tutt’altre latitudini e rette da ben diverse ideologie, come quella siriana del regime degli Assad, o persino regimi formalmente democratici, come quello di Israele. Assistere alle scene del film che si svolgono dentro il centro dove Rubens Paiva fu rinchiuso, e subito ammazzato per via delle torture subite anche se la famiglia lo saprà soltanto dopo 25 anni, rimanda con il pensiero immediatamente a regimi che si sono trascinati fino ai giorni nostri, come quello siriano. Abbiamo ancora davanti agli occhi le immagini del centro di tortura e detenzione di Sednaya, dove finivano tutti i dissidenti politici del regime di Assad: è quanto di più vicino possiamo immaginare, nella contemporaneità, ai centri come quelli brasiliani. E la lotta di giovani donne come Wafa Mustafa per conoscere le sorti del padre, scomparso nel 2013, sono quanto di più vicino alla lotta di Eunice Paiva e dei suoi figli nel Brasile degli anni ‘70, ‘80 e ‘90. Ma anche le lotte della famiglia del medico palestinese Hussam Abu Safiya, rapito dall’esercito durante l’assedio all’ospedale Kamal Adwan. Di lui non si sa più nulla, è scomparso. E forse, come Rubens Paiva, potrebbe essere già morto. Come è morta sua madre, di crepacuore, dopo che il regime israeliano aveva già assassinato, per vendetta, uno dei figli di Abu Safiya, suo nipote.

Le dittature e i regimi autoritari, quelli del Novecento e quelli di questo secolo, colpiscono sempre le famiglie. La lotta di Eunice per tenere insieme la sua, fino a quando non sarà l’Alzheimer a scomporre il suo quadro, a intaccare i ricordi e la lucidità così ferreamente mantenuta fino a quel momento, è la lotta di centinaia di migliaia di famiglie che lungo ogni generazione e in ogni angolo del mondo si sono battute per non farsi separare, per non consentire alla ferocia del potere di smembrarle, di lacerarle. Sui lineamenti delle donne, concentrati nello sguardo e nella tensione del viso di Torres che diventa sguardo collettivo, tensione condivisa, quella lotta si fa sorriso, tenacemente rivendicato di fronte alle telecamere dei giornali che preferirebbero mestizia o tristezza, degno e resiliente di fronte a un funzionario burocrate che non ti vuole aiutare, soddisfatto per una battaglia finalmente vinta; si fa durezza, pazienza, ostinazione per i mille ostacoli da superare. Si fa parola, battaglia, e infine silenzio, assenza, e poi guizzo di sentimento, quando il volto di Fernanda Torres cede il testimone a quello di sua madre, l’icona del cinema brasiliano Fernanda Montenegro, che interpreta la Eunice anziana, malata, ormai figlia dei suoi figli, ma ancora collante di una intera famiglia. Nel nome di un marito e padre amatissimo, brutalmente sottratto alla gioia, alla lotta e alla vita. Come fu ed è con tanti e tante, in tanti e diversi luoghi del mondo.

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