Quando No Other Land è stato premiato con l’Orso d’oro come miglior documentario alla Berlinale nel 2024, come qualche lettore ricorderà scoppiò un piccolo, non troppo piccolo, caso diplomatico: il discorso di accettazione del premio da parte di due dei co-autori – il giornalista israeliano Yuval Abraham e l’attivista e citizen journalist palestinese Basel Adra – con il quale i premiati denunciavano ciò che il documentario in primis già denunciava, ovvero la brutalità del regime di apartheid israeliano sui palestinesi e il loro agire genocidario, fu bollato come, indovinate un po’, “antisemita”.
Ecco come riportava le polemiche il portale d’informazione RAI News, di proprietà pubblica:

Il frangente per cui si conferisce un prestigioso premio a un documentario che è una denuncia in parole e immagini del regime di apartheid, ma i vincitori non possono ribadirlo sul palco, come se non ci fosse né fosse consentito tracciare alcun legame fra quanto mostrato nel loro lavoro e gli attacchi su Gaza, già di suo svela con quale ipocrisia il mondo della cultura, dell’informazione e della politica in Europa, e in Germania in particolare, vivano il rapporto con ciò che accade in Palestina. Il sindaco di Berlino e la Berlinale stessa presero le distanze dagli autori, ma la vetta è stata toccata dalla ministra della cultura del governo Sholz, Claudia Roth, che, accusata di aver applaudito il discorso tacciato come antisemita, si è difesa dicendo di aver applaudito solo le parole del regista israeliano, Abraham, e non di quello palestinese, Adra. A seguito delle polemiche, la famiglia di Abraham è stata minacciata e costretta, per la propria sicurezza, a trasferirsi altrove.
Alla vigilia degli Oscar 2025, dove No Other Land concorre per la statuetta di Miglior documentario e se la vedrà con Black Box Diaries di Shiori Ito, Porcelain War di Brendan Bellomo e Slava Leontyev, Soundtrack to a Coup d’Etat di Johan Grimonprez e Sugarcane di Julian Brave NoiseCat ed Emily Kassie, in tanti siamo curiosi di sapere cosa succederà se mai il film vincesse, e cosa direbbero i registi dal palco, se mai fossero in grado di viaggiare fino in California; cosa non poi così scontata per Adra, che in quanto palestinese è condizionato nei suoi movimenti ai permessi rilasciati dal governo israeliano, oltre che ai visti americani. In questi giorni, dopo l’annuncio della candidatura, Adra ha denunciato che le condizioni del suo villaggio continuano a essere quelle di continui attacchi israeliani, nonostante tutto.
Eppure, No Other Land meriterebbe di certo la vittoria. Perché è un’opera realizzata in condizioni ambientali difficilissime, con una maestria filmica stupefacente, ad opera di tutti e quattro gli autori: oltre ad Abraham e Adra, i due co-registi e montatori Rachel Szor e Hamdan Ballal Al-Huraini. Se quest’ultimo compare in un paio di scene, lei, Szor, non appare mai nel film. Ma il lavoro dietro la telecamera è eccezionale, ed eccezionale è il montaggio, tale da far sembrare fiction ciò che invece è durissima realtà: la realtà dell’occupazione israeliana – e della resistenza a essa – nel complesso di villaggi di Masafer Yatta, dove gli abitanti palestinesi subiscono una persecuzione costante, da decenni, da parte di soldati e coloni. Le loro case vengono demolite, le loro scuole vengono demolite. I loro attivisti vengono arrestati o colpiti, i loro pozzi sequestrati, le loro automobili rubate, il loro bestiame trucidato. I loro abitanti insultati, picchiati, scacciati. Molti, dopo aver perso la casa, sono andati a vivere nelle grotte del territorio, dove hanno miracolosamente creato condizioni di abitabilità e di profonda dignità, pur mancando di tutto.
Grazie ai registi e ai filmaker, in un arco di tempo che va dal 2019 al 2023 circa, e che si combina con immagini d’archivio e proteste storiche della comunità nei decenni precedenti, seguiamo le persecuzioni subite e le proteste contro di esse, a seguito di un ordine della Corte Suprema israeliana che ha dichiarato, nel 2019, tutto il territorio zona di addestramento militare, quindi soggetto a demolizioni e a evacuazioni della popolazione. Per andare dove? Non c’è nessun’altra terra, per i palestinesi. “No other land”. Questa è la loro terra. La loro terra storica, la loro terra amata, la terra con cui hanno un rapporto da generazioni. Gli israeliani, che rivendicano un legame biblico con questi territori, non li conoscono, non li rispettano e non li amano. Li conquistano e basta. Li possiedono. “Own the land”, così ha detto Trump immaginandosi le mani americane su Gaza. È la filosofia di ogni colono.
Seguiamo passo dopo passo, corsa dopo corsa, le fughe di Basel Adra dall’esercito israeliano, telecamera in mano, fra le pietre e la sterpaglia, le riprese in auto, i dialoghi fra gli autori che sono protagonisti della storia anche in video, Adra e Abraham; il farsi della loro amicizia, l’accettazione, sofferta ma calorosa, di Abraham all’interno della comunità; dove viene sì questionato, per ciò che il suo popolo fa ai palestinesi, ma anche accolto, come un figlio e un amico. Ben più violento, quasi mafioso in certi frangenti, è il trattamento che i soldati israeliani e i coloni riservano ad Abraham durante le demolizioni: lo riprendono per minacciarlo, lo chiamano, loro sì spregiativamente, “l’ebreo”. Già. Proprio loro, altri ebrei. Lo chiamano “l’ebreo” per mandargli un messaggio chiaro: ti controlliamo. Il tribalismo arcaico, che rappresenta le fondamenta dello Stato d’Israele oltre ogni copertura liberale e democratica, emerge tutto in questi scambi.
Masafer Yatta nel corso dei decenni ha sviluppato esperienze di co-resistenza, fra israeliani e palestinesi, che hanno portato varie persone da Israele a compartecipare alle iniziative di protesta dei cittadini. Nel film si vedono, le manifestazioni, le proteste, cui prendono spesso parte anche missioni di attivisti internazionali, molto frequenti, anche dall’Italia – l’ex parlamentare di sinistra Luisa Morgantini, attivista da tutta la vita per i diritti del popolo palestinese, ha condotto decine e decine di queste missioni nel corso degli anni portando con sé centinaia di persone dall’Italia, a conoscere direttamente le condizioni di vita e di lotta per la vita in Cisgiordania –, ma (volutamente, immaginiamo) non si dà grande spazio al racconto della co-resistenza, né alle missioni di attivisti internazionali. I pochi visitatori stranieri che vediamo entrare, dalla sfilata di Tony Blair nel 1993, riuscito in dieci minuti, racconta Adra nel film, a fare quello che i palestinesi non erano riusciti a fare in decenni, ovvero fermare le demolizioni per qualche tempo, a dimostrazione di una precisa linea del potere – fino ai giornalisti anglosassoni che insistono per fotografare il giovane Harun, rimasto paralizzato dopo che un soldato israeliano gli ha sparato al bacino mentre l’esercito rubava il generatore di energia elettrica nel villaggio. Un’invadenza delle immagini e del racconto, alla quale gli autori di questo film rispondono adoperando, dal canto loro, una incredibile delicatezza filmica, che è, insieme alla fotografia, la vera grandezza dell’opera. Rispettano le persone protagoniste delle vicende: le riprese non sono violente, neanche quando mostrano eventi e situazioni di violenza. Non indugiano sul dolore, ma ne mostrano, con spirito di verità, tutte le ragioni. Ruspe sulle case. Ruspe sulle scuole. Ruspe sui pollai. Ruspe sulle coltivazioni. Ruspe, mitra, fucili. Continuamente, secondo un calendario preciso di oppressione, mortificazione e annichilimento.
Ma la comunità resiste. “Aggrappata alla vita”, riflette a un certo punto Basel Adra. Suo padre era un leader della resistenza fin da quando aveva la sua età, e prima ancora. Adra sa che questo è anche il suo destino. In una conversazione illuminante con Abraham, scopriamo a confronto il diverso approccio dei due. “Sei entusiasta come se in dieci giorni potessi cambiare le cose e poi andartene, tornartene a casa”, dice Basel a Yuval, a un certo punto. “Pazienza”, ci vuole invece. Pazienza. Predisporsi a una resistenza che coincide con la vita tutta. È questa la forza del popolo palestinese, questa resilienza che per noi cresciuti in un mondo ansiosamente liberale è complicata da capire. In Occidente anche solo sentir parlare di resilienza ci stressa. Di fronte ai palestinesi, tuttavia, la parola assume un significato altro. Nobile, di un’umanità più profonda, più in armonia con l’ambiente, più intrisa di saggezza e di un senso della vita completamente differente. Per loro, come spesso hanno detto, come hanno scritto i loro poeti, come vediamo, anche attraverso questo film, esistere è resistere. Non c’è distinzione: per vivere occorre resistere all’oppressione israeliana, alla prepotenza dell’apartheid, alla crudeltà gratuita delle sue delibere, alla legge scritta da loro per i loro interessi, alla pretesa arcaica di farla valere in quanto legge del più forte.
Se No Other Land non vincesse l’Oscar come Miglior documentario ai prossimi Oscar 2025 sarebbe, in tutta franchezza, uno scandalo. Ma se mai lo dovesse vincere, sarà uno scandalo in ogni caso. Prepariamoci. Il frangente per cui la cerimonia cade durante la Presidenza Trump potrebbe indurre Hollywood a un gesto utile a lavarsi la coscienza per il suo generale assenso, per il generale assenso liberal al genocidio israeliano di questo anno e mezzo. Non dubitiamo che, nel caso, gli autori del film sapranno denunciare anche questo. Con la delicatezza e quel senso profondo di rispetto per la verità e la dignità che hanno dimostrato tenendo in mano le telecamere e mentre montavano il loro splendido film.

Giornalista, fondatrice di Kritica.it. Puoi leggere suoi articoli e saggi su MicroMega, Gli Stati Generali, Africa ExPress. Ha vinto diversi premi fra cui il Premio Luchetta – Stampa italiana nel 2022.
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