Dopo aver parlato con Marco Furfaro del Partito Democratico, intervistiamo Stefania Ascari, deputata del Movimento 5 Stelle, coordinatrice dell’Intergruppo parlamentare per la pace tra Israele e Palestina della Camera dei deputati, in vista della manifestazione “Basta complicità” del 7 giugno prossimo a Roma.

Dal giorno stesso in cui è iniziata l’ultima offensiva israeliana su Gaza lei è in prima linea nello schieramento solidale con il popolo palestinese e contro il genocidio, non ha aspettato che qualcuno le dicesse di prendere la parola e agire. È stata in prima fila anche nella delegazione unitaria con la quale siete stati in missione al valico di Rafah, e nella mozione che avete presentato in Parlamento per dire basta alla complicità con Israele da parte dell’Italia. Ora vi state preparando a scendere in piazza insieme per la prima volta, dopo che il 5 aprile solo una delegazione del PD aveva partecipato alla vostra manifestazione. Che valore ha questo percorso, perché avete preso la decisione di una piazza comune?

Ha un enorme valore di unità. Un valore di rete, fare rete per lottare insieme per fermare il genocidio dei palestinesi. Dobbiamo sfidare in tutti i modi il silenzio complice del Governo italiano, dire “basta complicità”. È fondamentale perché l’Italia si sta rendendo sotto ogni punto di vista complice di questo genocidio; per la fornitura di armamenti – che sappiamo arrivare a Israele da 3 Stati principalmente: USA, Germania, Italia –, perché l’Italia si è astenuta dal votare le risoluzioni ONU per il Cessate il fuoco e per il riconoscimento dello Stato di Palestina; per sostenere la Corte penale internazionale e per firmare la revisione dell’accordo fra Unione europea e Israele: anche su questo l’Italia ha votato contro. L’atteggiamento del Governo italiano è integralmente complice del genocidio in corso e questo è il punto principale. Ovviamente non hanno votato la mozione unitaria che chiede espressamente di interrompere i rapporti economici e commerciali con uno Stato che sta commettendo un genocidio, guidato da un criminale di guerra contro l’umanità.  

Serve, inoltre, un segnale fortissimo in solidarietà con il popolo palestinese, compreso con i palestinesi che sono stati fatti arrivare in Italia per essere curati e che – oltre le “photo opportunity” del Ministro Tajani – sono stati in realtà completamente abbandonati a sé stessi, senza supporto, e su questo sto per depositare un’interrogazione parlamentare (si può trovare riferimento a questo anche nell’intervista a Laura Boldrini, ndr).

Per quel che mi riguarda le priorità sono soprattutto due: lo stop all’invio di armi e a qualsiasi complicità con il complesso militare-industriale, e il riconoscimento dello Stato di Palestina. Ma è essenziale anche il ritiro del nostro ambasciatore, che ovviamente non può collaborare con uno Stato genocida. Soprattutto, serve una presa di consapevolezza collettiva e personalmente la vedo manifestarsi ogni giorno di più, nelle piazze, nelle iniziative. Il bisogno di agire collettivamente contro ciò che sta avvenendo e che è un disastro di proporzioni immani.

Eppure, questa catastrofe va avanti da oltre un anno e mezzo e finora non eravate mai scesi in piazza tutti insieme. La concatenazione di eventi con cui siete arrivati a questa decisione ha lasciato perplesse diverse persone. Il primo a lanciare l’idea di una piazza è stato il direttore di Repubblica Mario Orfeo, idea subito raccolta da Stefano Bonaccini e altri. Sembrava quasi stessero tentando lo stesso tipo di operazione già visto in azione a marzo-aprile scorso, quando la piazza del 15 marzo si è di fatto contrapposta e ha cercato di indebolire, senza riuscirci, il corteo contro il riarmo del 5 aprile. Qui sembrava si tornasse a un simile scenario, visto che il 21 giugno è prevista una manifestazione di tutte le realtà associative e sindacali contro il riarmo, di nuovo. Sono state queste concatenazioni a spingervi a decidere di scendere in piazza insieme?

Quello che stiamo vedendo di diverso in questa fase è che persone che prima non si erano espresse contro l’operato di Israele adesso lo stanno facendo. Giornali che prima non parlavano mai di Gaza o della Cisgiordania ora lo fanno. È un segnale di attenzione e maggiore sensibilità verso una situazione disumana. Questo segnale ci spinge verso l’unità, adesso. Ed è anche il modo migliore di rispondere a ciò che ci hanno chiesto i palestinesi che abbiamo incontrato davanti al valico di Rafah. Ci hanno chiesto non solo di indignarci – alla base di tutto c’è l’indignazione – ma di essere concreti nello stare in piazza, nell’informare, nel parlare delle ingiustizie e sofferenze vissute dal popolo palestinese. E poi ci hanno chiesto un’altra cosa: di boicottare i prodotti israeliani, di non dare i nostri soldi ai negozi, fast food, catene che finanziano il genocidio. E di informarci sulle banche che custodiscono i nostri conti, di farci mettere nero su bianco che non fanno investimenti nel business della morte. E se lo fanno, di cambiare banca.

Il boicottaggio di cui lei parla e l’attività di BDS – Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni – sono azioni piuttosto radicali, che il movimento antisionista e di solidarietà con il popolo palestinese porta avanti da tempo ma tutte le realtà sioniste e filoisraeliane avversano. Gli Stati Uniti anche da prima di Trump cercano di rendere illegale in tutti i modi questa rete, anche in Europa è avversata, e in Israele viene negato l’ingresso a chi partecipa alle campagne BDS. La sua presa di posizione è dunque molto forte. Come si combina con le insistenti richieste di portare in piazza anche le ragioni di Israele e i simboli di Israele? Almeno una parte delle persone che saranno in piazza, penso prima di tutto alle comunità palestinesi presenti, potrebbero provare forte disagio a veder sventolare la stessa bandiera che i soldati israeliani issano sulle macerie delle loro case, sotto le quali si trovano i resti di persone uccise, i cui cadaveri forse non saranno mai recuperati.

Per quel che mi riguarda ci sono due pensieri che vanno insieme e si combinano; riconoscere che tantissimi ebrei e anche ebrei israeliani sono sempre più distanti dalla politica messianica e sionista della destra, capeggiata da Netanyahu, da una parte. Se una persona come Edith Bruck, a 94 anni, sopravvissuta all’Olocausto, incita gli israeliani a ribellarsi al governo e a non combattere più, a manifestare contro il criminale di guerra alla testa di Israele, davanti al suo bunker per stanarlo, questa non è una cosa da poco. È una posizione coraggiosa, di rivolta, che viene dall’interno del mondo israeliano. Da queste posizioni si inizia per andare avanti e dire: “Ora riconoscete lo Stato di Palestina”.

Edith Bruck ha anche chiesto di scendere in piazza con le bandiere di Israele, oltre a quelle di Palestina. Lei è d’accordo con questo?

No. Non incoraggio in alcun modo a scendere in piazza con la bandiera israeliana, perché vorrebbe dire non prendere sufficiente distanza da ciò che sta facendo ora Israele, dalla logica al potere in Israele che è quella sionista messianica, intrisa di nazionalismo e di una mitologia religiosa, che vuole portare al Grande Israele. Una ideologia alla quale si accompagna sempre anche un intento di business sulla pelle di decine di migliaia di innocenti. L’occupazione risponde anche a quello, alla volontà di occupare giacimenti naturali. Se Israele si comporta da Stato terrorista, come si sta comportando, non si può scendere in piazza con la sua bandiera. Serve riappopriarci di un alfabeto umano, siamo in un momento di grande analfabetismo umano. Il lavoro che abbiamo iniziato come Integruppo parlamentare per la pace tra Palestina e israele, che ci porterà a tornare di nuovo in Cisgiordania, a luglio, è alla radice del percorso che ci sta portando verso la piazza del 7 giugno. L’obiettivo prioritario è fermare la mattanza. La prospettiva da qui a settembre è che possano morire di fame 470mila esseri umani a Gaza. 51mila bambini rischiano di morire prima di compiere 7 anni, per via della fame. Questa non sarebbe che una cosa: una sconfitta dell’umanità intera. E per fermare questo dobbiamo fermare innanzitutto quel criminale che oggi è alla guida di Israele.

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